La frode in musica è argomento complesso perché il linguaggio sonoro, a causa della naturale intrinseca astrazione, si presta a innumerevoli rifacimenti sino a coinvolgere autori, interpreti, promoter, case discografiche, mass media e mezzi di riproduzione.

In tal senso il falso o il plagio in musica sono vecchi quanto il mondo e condivisi con ogni altra forma espressiva. Tuttavia l’avvento di sempre nuove tecnologie, lungo l’intero Novecento, dalla radio al grammofono, dall’amplificazione ai sintetizzatori, dal videoclip al digitale, dal nastro a napster, crea inedite prospettive di ascolto e fruizione, che a loro volta trasformano radicalmente l’identità percettiva della musica stessa. Anche i mezzi di trasmissione e comunicazione si sovrappongono ai linguaggi artistici diventando a loro volta inedite realtà estetiche. E in tale contesto la frode assume caratteri macroscopici perché va a ledere i principi della creatività e persino confondere l’etica della teoria e della prassi di note, spartiti, pentagrammi, suoni puri o rumore bianco.

Tuttavia ancor oggi è difficile stabilire cosa sia frode in musica, ad esempio capire dove, come, quando, perché una canzone venga in toto copiata da un’altra se le due non sono perfettamente identiche, poiché le note musicali in fondo rimangono sempre sette e le combinazioni illimitate ma non infinite. In tal senso la causa intentata da Albano Carrisi contro Michael Jackson accusato di scopiazzare un pezzo viene persa da entrambi per ulteriori analogie trovate dalla Sony con un terzo precedente brano. Viceversa quando Adriano Celentano (o chi per lui), nel 1962, per evitare un esoso copyright, decide di tradurre il successone Stand By Me in Pregherò senza riconoscerne la paternità di Ben E. King, ma – spacciandolo per un vecchio gospel rimusicato da Don Backy e Ricky Gianco – scrivendo sui dischi «dominio pubblico» al posto di nome e cognome dell’autore originario, commette una gravissima scorrettezza: non a caso l’inganno viene scoperto dai legali del soulman e il Molleggiato è costretto a pagare una multa di gran lunga superiore alle regolari royalties.

La frode musicale si confonde spesso con il mistero: in pieni anni Sessanta, la risposta americana ai Beatles si chiama Monkees, giovane quartetto che appare su dischi e in telefilm, ma non ai concerti o in diretta tv: «Sono davvero loro a cantare e suonare?», si domandano un po’ tutti; ma la risposta non arriva nemmeno con il bel film Head (1968) di Bob Rafelson (prodotto da Jack Nicholson), pur incentrato sulla carriera del gruppo, un po’ come Tutti per uno di Richard Lester sui Fab Four.

Lo stesso ragionamento potrebbe essere applicato ai Residents, post punk band statunitense di cui si ignora tutto, ma che dagli anni Settanta continua a produrre album e filmati dove si vedono i quattro membri sotto le maschere di enormi bulbi oculari. La frode in musica dunque contempla diversi aspetti che, come in questi dieci casi esemplari, trova diversi raggiri non solo verso la musica e i musicisti, ma anche nei confronti di un pubblico fin troppo «buono» nell’accettare gli sporchi interessi di certo show business.

La morale della favola difatti insegna che l’ossessiva ricerca e lo spasmodico desiderio da parte della cosiddetta industria musicale vanno sempre verso il totale riconoscimento della propria «bravura», che, in parole povere significa «fare soldi»; la volontà quasi nietszchiana di «puntare in alto» conduce talvolta ad alcune pratiche di per sé poco raccomandabili, nel senso che la storia della musica soprattutto recente è piena di «oggetti» da alta classifica inventati da persone che, alla fine della fiera, si rivelano poco oneste e per nulla credibili.

C&C Music Factory «Everybody Dance Now»

Noto soprattutto per questo singolo, il duo formato da David Cole e Robert Clivillés, attivo tra il 1989 e il 1996, è abilissimo a mescolare pop, rap e dance, fino a raccogliere qualcosa come 35 premi discografici mondiali (5 Billboard Awards, 5 American Music Awards e 2 Mtv Video Music Awards). Ma già nel 1990 la coppia si trova in una posizione compromettente: Martha Wash, un’esperta cantante meglio nota per l’exploit It’s Raining Men con le Weather Girls, intona su disco il famoso ritornello del brano più significativo di C&C Music Factory, ma viene ritenuta assai poco attraente per rientrare nel video ufficiale e sostituita da una fotomodella. In realtà, la Wash non appare mai in nessuno dei tanti clip di molti altri gruppi (Black Box e Seduction per esempio), per i quali lei effettivamente interpreta e registra ogni canzone, senza essere minimamente gratificata: sul palco viene persino sostituita da una controfigura. L’indignazione pubblica che ne segue porta a introdurre una legge nel sistema americano, che vieta la pratica di usare dal vivo cantanti non accreditati e materiale preregistrato senza notifica pubblica. Quanto a Martha, lei stessa, presenta subito alcune denunce contro le band (e relative etichette discografiche) con le quali lavora: riesce a vincere facilmente le cause e a percepire, infine, i compensi a cui ha diritto.

Lin Miaoke «Ode to the Motherland»

La Cina è un paese noto per contraffare quasi tutto, dai vestiti ai computer, dai dvd al parmigiano. A quanto pare, la produzione di cantanti appunto contraffatti, purtroppo, non sfugge a chi organizza le Olimpiadi del 2008 a Pechino. Adorabile bimba di nove anni, Lin Miaoke viene invitata sul palco a intonare (in playback, con la voce non sua) la canzone Ode to the Motherland alla cerimonia di apertura dei Giochi stessi. Gli organizzatori decidono che il vero cantante di sette anni (Yang Peiyi) non è «abbastanza carino» per apparire sul palco e in tivù. Il direttore musicale dei Giochi ammette la frode alla radio cinese, dicendo che lui e lo staff da tempo risultano sotto pressione «grazie» a un anonimo funzionario del Partito comunista. Nel frattempo, Lin Miaoke, che è già una piccola star della Reppublica Popolare, apparendo in molti spot televisivi, diventa un fenomeno da un giorno all’altro con la «semplice» performance labiale, restando famosa in Cina ancor oggi, nonostante il coinvolgimento nella truffa in mondovisione. Il popolo, da Pechino a Shangai, da Tiensin a Hong Kong, resta diviso sulla questione: alcuni lo considerano un grave errore a livello nazionale, mentre altri pensano che si tratti di un escamotage irrilevante perpetuato dalla grande Cina per offrire al mondo la miglior cerimonia possibile nell’aprire le Olimpiadi da sempre più costose.

Mamoru Samuragochi «Symphony No. 1: Hiroshima»

Conosciuto come «Beethoven del Giappone», è un impostore che non è né sordo né capace di scrivere musica. La vera persona, dietro la musica a firma Samuragochi, è un professore di musica al Tokyo College di nome Takashi Niigaki, il quale si fa avanti per indicare la frode poco prima che una delle roboanti composizioni venga eseguita alle Olimpiadi invernali di Sochi. Incapace di perpetuare il tranello nei confronti del mondo intero, Takashi confessa la verità in conferenza stampa davanti a una nazione stupita. Prima di allora Samuragochi viene ufficialmente accreditato grazie a molti gradevoli brani, compreso il lavoro fatto per la serie di videogiochi Resident Evil, che lo spinge alla ribalta internazionale. Nel 2003, la Symphony No. 1: Hiroshima gli vale l’encomio dell’intero Giappone, nonché il premio di cittadino onorario da parte del sindaco dell’omonima città. Dopo il terremoto del 2011 con lo tsunami che rade al suolo le zone costiere, la sinfonia diventa un po’ l’inno nazionale, contribuendo a sollevare il morale di un popolo in lutto. In risposta alla conferenza stampa di Niigaki, Samuragochi tiene un altro discorso in cui si scusa per l’inganno, chiedendo perdono della nazione. Ma a conferenza finita, Samuragochi va però sulla difensiva, sostenendo che Niigaki è costantemente «ossessionato» dai soldi, negando altresì le accuse di una minaccia di suicidio qualora sia rivelato il dolo. Samuragochi addirittura promette di citare in giudizio Niigaki per diffamazione. Alla fine, la frode risulta l’ennesimo caso di pubbliche relazioni adottate ai limiti estremi, con la scelta di una figura più commerciabile per sostituire un musicista dal poco appeal. Niigaki continua però a scrivere musica e esibirsi dal vivo, mentre Samuragochi è del tutto scomparso dalla scena pubblica.

Joyce Hatto «Chopin Valzer Op. 64 n. 1»

Una persona che vanta il lavoro di un altro come proprio è abbastanza offensiva, ma una che ne sostiene ben sessantasei è decisamente ridicola: ed è esattamente ciò che questa mediocre pianista inglese riesce, sorprendentemente, a tirare fuori, come un coniglio dal cappello a cilindro di un prestigiatore. La signora londinese pubblica decine di album con scarsi esiti di pubblico e di critica tra gli anni Settanta e Ottanta, prima di sperimentare, nel 1993, una registrazione fraudolenta. Lei e il marito cominciano a rubare – dai dischi di altri pianisti – in maniera regolare, quasi sistematica, attenti a usare solo le performance di interpreti misconosciuti (ma di talento), facendole naturalmente passare come proprie. Fino alla morte all’età di 75 anni nel 2006, quasi tutti nel mondo della musica classica dunque credono che Joyce sia una grandissima artista. Le innovazioni tecnologiche permettono infatti alla coppia di manipolare le registrazioni per ottenere sempre più successo, come ad esempio nel celebre valzer chopiniano. Ma nel momento in cui questo e altri brani della Hatto vengono caricati su iTunes, musicologi e melomani fanno subito il confronto con pianisti assai meno noti, il cui lavoro viene parimenti ospitato in rete: e scoprono quindi una carriera discografica quasi interamente fabbricata in laboratorio, fino a comprendere addirittura un’orchestra fasulla e un direttore inesistente. Ancora non si sa fino a che punto la «pianista» partecipi alla frode. Durante il periodo in cui le registrazioni fraudolente vengono pubblicate, è ormai vecchia e malata di cancro: quello che si scopre è che l’uomo che sposa nel 1956, il produttore discografico William Barrington-Coupe, in passato viene coinvolto in loschi traffici dello stesso tipo. Lui afferma, alla fine, di voler dare alla moglie morente un senso di felicità, per farla credere artisticamente realizzata: «Mia moglie era completamente all’oscuro di quanto ho fatto io – afferma – e ho semplicemente voluto farle sentire il disco finito, in modo che lei pensasse che fosse completamente opera sua». Cosciente o meno della frode, il danno compiuto è incalcolabile, soprattutto in termini di riconoscimento verso tutti quei pianisti dal lavoro rubato.

Sixto Rodriguez «Sugar Man»

Searching for Sugar Man (2012), acclamatissimo documentario di Malik Bendjelloul, ha come argomento il cantautore di Detroit, che è un vera «manna» quando si tratta di parlare di musica «frodata». Purtroppo Clarence Avant, il manager che sta dietro la carriera (e l’insuccesso) del geniale folksinger di origini messicane, adopera fraudolentemente, sotto falsa identità, una grande quantità di brani originali di Sixto Rodriguez, per bypassare il contratto con l’autore stesso. All’insaputa di quest’ultimo i primi due album del 1970 e 1972 risultano molto popolari in Sud Africa negli anni Novanta, diventando la colonna sonora del movimento anti-apartheid; ma è solo quando il musicista si reca per la prima volta nella nazione ormai libera di Nelson Mandela che scopre di essere famosissimo in loco (ma ancora povero), ragion per cui comincia a sentire odore di bruciato. Durante la realizzazione del film, Rodriguez nota che le vendite del primo singolo e dei suoi album Sugar Man e Cold Fact a Capetown, Johannesburg, Pretoria, sfiorano il milione di copie. Ma la maggior parte dei brani sono editi sotto il nome di un immaginario fratello, Jesus Rodriguez. Avant semplicemente cambia i nomi e pubblica le tracce sotto la propria etichetta, invece che su quella di Sixto. Quando le prove del misfatto sono ormai inconfutabili, Rodriguez cita Avant in tribunale per i diritti d’autore, ingiustamente evasi da oltre tre decenni. La risposta di Avant è molto antipatica, sostenendo in merito al musicista derubato: «Gli auguro il meglio. La sua fama sarà finita entro un anno».

Robert Mawhinney «I’m not a Gangsta»

Quelli che nel mondo della musica ragionano in grande, investendo milioni e milioni per i loro sforzi, si vedono surclassati da questo oscuro personaggio, dall’aria del ragazzino qualunque, il quale dimostra che per incassare il bottino non gli serve nemmeno un brano nella top ten. Mawhinney semplicemente riesce a «simulare» il proprio successo; e in tutte le complesse operazioni del caso, Robert sa truffare fior fiori di investitori disposti a sponsorizzare la sua band per circa quindici milioni di euro. Il gruppo, Lights Over Paris, fatica a emergere, fino a quando il leader mette in pratica il motto americano «fingi finché non riesci…». Ottiene infatti prestiti da quattro diverse banche sia per finanziare le riprese di un video professionale (con un cameo di un rapper chiamato Game) sia per registrare un album intitolato Turn Off the Lights. Ha il coraggio di rivendicare oltre dieci milioni di euro in attività varie, benché il suo conto in banca non arrivi a dodicimila euro. Quello che le banche non sanno è che Mawhinney allestisce una sorta di «schema Ponzi», con le vincite dei prestiti a coprire i pagamenti degli altri, fin quasi a sfiorare le quote massime. Mentre il vento è in poppa, Robert si compra un appartamento di lusso a Los Angeles e si regala viaggi costosi in grande stile per il mondo intero. Purtroppo per lui, il suo regime finanziario crolla e le attività fraudolente e il modus vivendi dispendiosissimo vengono a galla. Per tutti i raggiri, viene condannato a sette anni di carcere, mentre l’unica vera pretesa di Mawhinney – essere una rock star di fama planetaria – al momento non è ancora esaudita.

Michael Jackson «Hold My Hand»

Il 25 giugno 2009 il mondo perde uno delle figure più amate nel pop e nello spettacolo: l’ultimo album a suo nome, Michael, viene pubblicato l’anno successivo. Da allora fino a oggi, molte teorie cospirative circondano la figura del cantante (e la sua morte), ma certo uno degli effetti più dannosi è la teoria portata avanti da chi (nella stessa famiglia Jackson) non compare nei brani sul suddetto disco. La figlia Paris e altri membri della numerosa parentela sostengono infatti che il vocalist nel cd è un uomo di nome Jason Malachi. Infatti, la voce di Malachi è incredibilmente simile a quella del defunto Re del Pop. Il problema rimbalza subito dai giornali ai siti e ai forum del web, addirittura una pagina di Facebook viene dedicata a scoprire la verità. Sia l’etichetta discografica di Jacko sia chi rappresenta l’immenso patrimonio dell’artista negano le voci di frodo, precisando che si tratta solo di un altro caso di follia collettiva attorno a una celebrità defunta, mentre Paris ufficialmente ritratta la questione via Twitter. Eppure, la polemica infuria ancora: diversi fan del geniale «inventore» di Thriller e di Bad si rifiutano di accettare il dietro front quasi improvviso della figlia e di molti altri parenti, amici, conoscenti.

David Bowie «Starman»

Nel 1972, David Bowie pubblica The Rise and Fall of Ziggy Stardust, un «classico» del rock, uno degli album di maggior successo di pubblico e di critica. Quarant’anni dopo, una cover in chiave soul di Starman (tra le grandi song di quell’album), eseguita da un misconosciuto vocalist di nome Miky Edwards ottiene un exploit straordinario su YouTube. Presto vengono a galla, in rete, altre cover del lavoro di Bowie sotto il nome di Edwards, con la sensazione che si tratti di un artista rimosso da decenni e ora di colpo rinato. Ma è tutta una bufala, scoperta dopo alcune diligenti ricerche, da parte degli appassionati di musica, con il pensiero rivolto a far chiarezza subito. Per prima cosa, la copertina dell’album presentato, come immagine fissa, nel video su YouTube sembra riferirsi, in particolare, a uno stile anni Sessanta, mentre il disco vede la luce nel decennio successivo. In secondo luogo, la «nuova» registrazione pare essere manipolata digitalmente, in maniera totalmente diversa rispetto all’acustica di un vinile suonato su un «vecchio» giradischi. Infine, il fatto che Milky e la sua band The Chamberlings arrivino, all’improvviso, dal nulla alla ribalta, risulta sin troppo semplice, soprattutto da quando viene riferito che il cantante è ormai morto da anni, con l’aggravante che non esistono autentiche informazioni su di lui e sui membri del gruppo sia in rete sia su libri o riviste. Alcuni fan però sostengono che non importa se le registrazioni siano contraffatte; e aggiungono che la musica è troppo grande per essere ignorata, indipendentemente dalle origini più o meno fraudolente. A tutt’oggi, Milky Edwards e la «sua» Starman hanno un forte seguito su YouTube e altri social media, anche se probabilmente lui è un’entità astratta e dunque un falso storico.

Will and Monifa «Living on a Prayer»

The Tonight Show è un programma televisivo americano che esiste dal 1953 e che dal 2010 agli inizi del 2014 viene condotto da Jay Leno: all’interno della trasmissione c’è la rubrica Pumpcast News in cui un giornalista su uno schermo tv installato sopra una pompa di benzina interagisce con i clienti in maniera apparentemente casuale, chiedendo loro di compiere gesti o azioni divertenti. Will e Monifa sono due di questi avventori invitati a cantare Living on a Prayer di Bon Jovi e Sweet Dreams degli Eurythmics. Il video della straordinaria performance della coppia viene caricato su YouTube e messo in circolazione poco dopo lo show, guadagnando 7,5 milioni di visualizzazioni e una grande quantità di pubblicità gratuita per spettacolo di Leno. Ciò che però quest’ultimo non rivela è che Will e Monifa sono attori navigati: entrambi insomma vantano una vasta esperienza di recitazione: fondano persino una loro compagnia teatrale a Chicago prima di trasferirsi a Hollywood. Tutto quindi risulta una messinscena. Monifa appare su Pumpcast News persino due anni prima, nella stessa auto alla stessa stazione di servizio, indossando pure gli stessi vestiti; ma in quella sequenza afferma di essere una istruttrice di fitness. Il giornalista nel filmato introduce anche Will per nome, cosa impossibile nel caso di eventi davvero improvvisati. Ma il giorno della trasmissione, entrambi gli attori negano la truffa, sostenendo trattarsi di banale coincidenza; gli smanettoni del pc riescono però a comparare in rete i due episodi. I rappresentanti legali di The Tonight Show, per parte loro, tacciono sulla questione, ma forse non è un caso che ora a condurla non sia più Leno, ma Steve Allen con Ernie Kovacs.

Milli Vanilli «Girl You Know It’s True»

Il duo tedesco formato da Rob Pilatus e Fab Morvan – spacciato come afroamericano – salito alle stelle nei primi anni Novanta con l’album Girl You Know It’s True (e l’omonimo singolo) ottenendo fama e ricchezza lungo l’intero pianeta, passerà forse alla storia come la maggior frode musicale di tutti i tempi. Sono una coppia di ballerini/fotomodelli che assumono il ruolo di cantanti affermati, senza mai intonare una nota, giacché le voci reali nei dischi di Milli Vanilli sono di Brad Howell, Johnny Davis e Charles Shaw, rimasti in ombra sia prima sia dopo. L’inganno viene esposto drammaticamente a pubblico ludibrio quando il nastro con le voci preregistrate s’inceppa durante una performance televisiva. La speculazione attorno al gruppo (sul quale da tempo cala il sospetto della frode) dilaga, alimentata da nettissime incongruenze come il marcato accento tedesco, del quale non v’è alcuna traccia nell’impeccabile canto inglese su cd o in playback. Alla coppia viene tolto il Grammy vinto nel 1989, sfiorando la tragedia e il ridicolo nei confronti del pubblico amato e dell’industria musicale. Pur sostenendo di essere vittime innocenti della truffa, costretti da un produttore discografico senza scrupoli, i Milli Vanilli tuttavia mantengono meticolosamente in vita il sotterfugio fino a quando non sono forzatamente esposti alla nuda verità. Dopo le tante cause legali e l’odio di una marea di fan, la coppia tenta un «album di ritorno» in cui effettivamente interpreta le proprie canzoni, ma, nonostante il bombardamento mediatico, il duo e il disco finiscono rapidamente nel dimenticatoio. Fab Morvan lavora ancora senza sosta per salvare il suo buon nome, pubblicando di recente un nuovo singolo su iTunes chiamato Anytime. Rob Pilatus, invece, dopo svariati problemi con la legge (e qualche tentativo di suicidio), alla fine muore di overdose in una camera d’albergo, all’età di trentatre anni.