È stato ritrovato in un fosso della periferia del Cairo il corpo di un giovane straniero. Si tratta del cadavere di Giulio Regeni, il dottorando italiano scomparso la notte del 25 gennaio scorso. Sul corpo sarebbero stati rinvenuti segni di tortura. Tuttavia, le autorità egiziane continuano a non annunciare la versione ufficiale dell’accaduto. Sarebbe in corso un’autopsia.

Probabilmente è necessario prendere tempo per costruire una spiegazione plausibile dell’accaduto che non coinvolga le responsabilità della polizia.

Si tratterebbe di un epilogo tragico in circostanze tutte da verificare.

Il caso Regeni era partito già nel peggiore dei modi. La stampa mainstream italiana sta già avvalorando la tesi del governo egiziano di una rapina finita male ancor prima che si concludano i primi accertamenti del caso. I media locali in queste ore starebbero avvalorando anche la tesi, avanzata dalla polizia, dell’incidente stradale.

Un avvocato per la difesa dei diritti umani egiziano, Mohamed Sobhy, ha riferito di non aver potuto visionare il corpo di Regeni nell’obitorio di Sayeda Zeinab.

La Farnesina, che ieri ha convocato l’ambasciatore egiziano a Roma per chiedere spiegazioni, aveva diffuso la notizia solo una settimana dopo la sua scomparsa e quando la famiglia aveva già raggiunto la capitale egiziana. La notizia della morte è arrivata nella serata dello scorso mercoledì durante una missione economica, guidata dal ministro per lo Sviluppo, Federica Guida, che è stata immediatamente interrotta.

Per i compagni e gli amici si tratta di una perdita enorme.

Giulio era uno dei più brillanti studiosi dell’Università di Cambridge. Marxista, si è occupato per anni di sindacalismo indipendente e movimenti operai. A 17 anni era andato a studiare in New Mexico per poi trasferirsi in Gran Bretagna. Nel 2012 e nel 2013 ha vinto due premi al concorso internazionale dell’Istituto regionale studi europei per ricerche e approfondimenti sul Medio Oriente.

È molto difficile ricostruire le ultime ore di Giulio.

Secondo le notizie della stampa locale, la sera del quinto anniversario delle proteste di piazza Tahrir, Giulio avrebbe dovuto raggiungere suoi amici per una festa di compleanno. Partito dalla fermata Behoos, nel quartiere centrale di Doqqi a due passi dal Nilo, Giulio si sarebbe diretto verso Meidan Bab el-Louk. Su questo tragitto non si hanno conferme ufficiali.

Due sono le testimonianze citate dalla stampa egiziana, quella di alcuni suoi amici che non lo hanno visto arrivare all’appuntamento e hanno lanciato l’allarme.

Sulle circostanze dell’arresto, l’unica testimonianza che è stata citata da fonti non ufficiali viene da una giornalista egiziana che avrebbe visto uno straniero mentre veniva arrestato dalla polizia in zona Giza, quindi qualche fermata della metro più avanti rispetto alla presunta meta di Giulio. Proprio alle porte dell’Università del Cairo si è svolto uno dei due sit-in islamisti all’indomani del golpe del 2013 ed erano previste possibili manifestazioni anche per il 25 gennaio scorso.

A questo punto cala il mistero sulla scomparsa del dottorando dell’Università di Cambridge, che ha subito ottenuto il sostegno umano e via social network di compagni e amici. Se questa ricostruzione venisse confermata i primi responsabili della tragica fine del giovane potrebbero essere i poliziotti che lo hanno arrestato.

Nella nota diffusa dalla Farnesina, si chiede alle autorità egiziane «il massimo impegno per l’accertamento della verità e dello svolgimento dei fatti».

In verità il governo italiano, dal giorno del golpe militare di al-Sisi del 3 luglio 2013 è diventato il principale sostenitore della repressione egiziana. Il regime militare di al-Sisi ha azzerato qualsiasi aspirazione democratica in Egitto e diffuso un sentimento di xenofobia che ha colpito tutti gli stranieri a partire dai profughi siriani e palestinesi che hanno visto stracciati i loro documento e fino a giornalisti e studiosi stranieri, minacciati o arrestati al loro arrivo al Cairo.

La morte di Giulio mette in luce la regressione che il paese ha subito negli ultimi cinque anni, richiama alla mente la grave scomparsa di Shaimaa al-Sabbagh, attivista socialista uccisa lo scorso anno mentre portava una rosa in piazza Tahrir, e mette in discussione ancora una volta la possibilità di studiare e raccontare il paese da parte di ricercatori e giornalisti stranieri.

Ci uniamo al cordoglio della famiglia.