La città più fortificata della Siria è caduta. Dopo l’attacco al campo profughi di Yarmouk, sud di Damasco, la conquista di Palmira segna la prima vittoria diretta del califfo contro il presidente Assad.

Le notizie dei giorni scorsi avevano rassicurato: l’esercito governativo, nonostante decine di morti, aveva mantenuto il controllo sulla città nuova, Tadmur, e sul sito archeologico, patrimonio Unesco.

Ha prevalso il califfo, come ha prevalso su un esercito iracheno allo sbando domenica a Ramadi. Le sconfitte rimediate dagli islamisti a Kobane e Tikrit avevano fatto pensare ad un arretramento o, almeno, ad una strategia di difesa e non di attacco. Un errore di valutazione della coalizione guidata dagli Usa: a quasi un anno dalla conquista di Mosul, il califfato non ha visto intaccate le sue capacità militari, finanziarie e di reclutamento. E se in Iraq gli Usa corrono ai ripari inviando armi, la chiusura totale verso Assad in Siria garantisce al califfo maggiore libertà di manovra.

Tanto che oggi controllerebbe metà Siria. A riferirlo ieri è stato l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani, da 4 anni impegnato nel fronte anti-Damasco. Il territorio sotto il califfo si estende dalla città settentrionale di Raqqa alle porte di Aleppo, dalla provincia nord di Deir Ezzor al centro del paese, 95mila metri quadrati di terre. Molte sono aree desertiche, poco popolate, a differenza delle province occidentali dove si trovano le principali città.

Assad ha ammesso la sconfitta: mercoledì sera la tv di Stato ha dato la notizia della fuga dell’esercito e della caduta di Palmira e della città nuova sorta ai margini del sito archeologico, ribattezzato “la sposa del deserto”. Rovine di 2mila anni fa, visitate ogni anno da migliaia di turisti. Consapevoli del rischio, funzionari governativi hanno portato in salvo centinaia di statue e reperti, ha detto Abdul-Karim, capo del Dipartimento Antichità e Musei, ma non i grandi monumenti impossibili da trasferire: «La città è controllata da uomini armati, il suo destino è scuro. È la battaglia di tutto il mondo».

Accanto alla storia antica della Siria c’è anche il suo presente. Uomini, donne, 50mila persone (delle 70mila residenti prima della guerra civile) intrappolate nella città nuova, su cui l’Isis ha imposto il coprifuoco: testimoni raccontano di corpi decapitati per strada e di perquisizioni casa per casa dei miliziani alla caccia di soldati del governo. Prima di ritirarsi, l’esercito siriano ha coperto la fuga di 1.500 residenti, diretti verso Homs e Damasco. Le truppe, riferisce Talal Barazi, governatore provinciale, sono concentrate intorno Palmira per bloccare i rinforzi all’Isis.

La sfida lanciata ad Assad è diretta: dopo la presa della prigione di Tadmur e della base militare, l’Isis ha pubblicato video che mostrano un poster con il volto del presidente dato alle fiamme. Perché Palmira è strategica, sia dal punto di vista militare che simbolico. La città è sede di una base militare, centri dell’intelligence, impianti di gas che generano elettricità per l’ovest del paese; si trova lungo la superstrada che collega la capitale alle province orientali, per lo più controllate dall’Isis e da gruppi di ribelli anti-Assad.

Ma soprattutto, per la prima volta, il califfo strappa un territorio ancora controllato da Assad, minacciando di allargarsi verso ovest, dove il governo ha ancora le sue roccaforti. Una minaccia che non si concretizzerà presto: se la zona costiera, dall’ovest di Aleppo a Latakia, è sotto il governo, il confine con il Libano (la regione di Qalamoun, a sud ovest) è terra di Hezbollah. I combattenti libanesi, al fianco di Assad, continuano ad aumentare di numero e a garantire il possesso di un’area strategica, più volte target dei qaedisti di al-Nusra ma mai caduta. In un’intervista alla Reuters ieri il vice di Nasrallah, Sheikh Naim Qassem, ha precisato che il gruppo sosterrà Assad, «non importa quanto tempo richiederà».

In Iraq dispiegati 60mila sciiti a difesa di Baghdad

E se il movimento sciita è fondamentale alla tenuta del governo Assad, anche l’Iraq si affida alle milizie sciita, legate all’Iran. La battaglia per Ramadi continua: le forze irachene cercano di impedire l’allargamento degli islamisti nel resto della provincia di Anbar. A muoversi sono però le milizie sciite: se solo il 5% – riporta il sito kurdo Rudaw – delle Unità di Mobilitazione Popolare sono state inviate a Ramadi, 60mila di loro sono a Baghdad, estrema difesa della capitale minacciata dal califfo in un recente video.

Come minacciata è Karbala, uno dei più importanti centri sciiti. Così centrale da far tornare in campo Muqtada al-Sadr e il suo Esercito del Mahdi: «Se tocchi le nostre città sacre – ha detto riferendosi ad al-Baghdadi – riempiremo l’Iraq dei vostri disgustosi corpi».