L’avanzata di terra delle milizie fedeli al governo di accordo nazionale è ripresa ieri dopo dieci giorni di bombardamenti americani «soft» e ha liberato Sirte, la città costiera dove il califfato nero aveva eletto il suo avamposto libico.

L’annuncio è arrivato ieri pomeriggio dal quotidiano online Libyan Herald che cita ampi stralci dell’intervista del premier Fayez Sarraj al Corriere della Sera pubblicata proprio ieri. I soldati del governo Sarraj – che adesso, dopo i 28 raid dell’operazione statunitense «Odyssey Lightning», è più chiaro quanto goda dell’appoggio internazionale – hanno conquistato l’ex hotel Ouagadougou, dove era insediato il comando militare dell’Isis a Sirte, e hanno perlustrato a fondo anche il vicino ospedale Ibn Sina Hospital e l’università.

Secondo quanto dicono i media libici, in tutto non hanno ucciso più di una ventina di miliziani neri. Nel frattempo le forze leali a Sarraj hanno perso un caccia, un vecchio Mig di fabbricazione sovietica, abbattuto al mattino nel cielo di Sirte dalla contraerea del gruppo Alba libica, secondo quanto ha rivendicato l’agenzia di stampa ufficiale dell’Isis, Amaq. Un colpo di coda che non ha fermato l’offensiva lanciata all’alba dagli uomini di Misurata.

Con Sirte riconquistata, l’intervento delle forze aeree statunitensi – programmato per un massimo di trenta giorni e solo con questo fine – dovrebbe cessare.

In realtà, secondo il Washington Post, non smentito, le forze speciali avrebbero già allestito una base operativa nei dintorni di Sirte. E la portavoce del Pentagono, Henrietta Levin, in un comunicato, precisa che «gli Stati Uniti stanno conducendo attività esclusive, in particolare intelligence, sorveglianza, ricognizione e attacchi di precisione, che aiuteranno le forze alleate del governo di accordo nazionale a compiere progressi decisivi e strategici». «Un piccolo numero di forze Usa è andato in Libia per scambiare informazioni con le forze locali – ha confermato – e continueremo a farlo nell’ambito del rafforzamento contro lo Stato islamico e altre organizzazioni terroristiche», precisando che in ogni caso queste truppe Sas sono lontane dalle linee del fronte.

Nel ginepraio libico, dopo la presa di Sirte, ora il problema si sposta al terminal petrolifero di Zueitina, sulla costa della Cirenaica, 180 chilometri a sud ovest di Benghazi.

Lì si confrontano dal 5 agosto le guardie addette alla sicurezza degli impianti petroliferi (Pfg)guidate da Ibrahim Jadhran e il nuovo uomo forte inviato ad attaccarle dal generale «ribelle» Kalifa Belqasim Haftar, il comandante Muftah Shagloof. Secondo quanto riportano i media locali, Shangloof sarebbe stato incaricato da Haftar di occupare i porti della Mezzaluna petrolifera e poi attaccare i giacimenti del Wahat, del Maradah e di Zallah.

L’ambasciatore britannico in Libia Peter Millet e l’inviato speciale Usa Jonathan Winer nei giorni scorsi hanno espresso le loro preoccupazioni per la situazione a Zueitina al presidente della compagnia petrolifera libica Noc, Mustafa Sanalla.

E Sanalla stesso da Tripoli ha pubblicato un appello a entrambe le parti – le guardie Pfg e il Libyan national armi di Haftar fedele al governo di Tobruk – perché «rispettino le infrastrutture e i depositi di greggio che appartengono al popolo libico e servono per la ricostruzione economica del paese». Sanalla ha anche diffidato i due schieramenti «a non utilizzare le strutture come scudi dietro cui difendersi» e ha chiesto invece di garantire un «passaggio sicuro» per spostare gli stock di petrolio in una postazione sicura.

Il premier del governo di accordo nazionale Sarraj in una nota sostiene che i governi di Francia, Germania, Spagna, Regno unito e Stati Uniti gli hanno espresso preoccupazione per la situazione a Zueitina e torna a citare non solo la risoluzione 2259 dell’Onu in base alla quale gli Stati Uniti hanno dato il supporto aereo per sconfiggere l’Isis ma l’altra risoluzione, la numero 2278 del 31 marzo scorso, a tutela delle fondo d’investimento libico e della compagnia petrolifera Noc. La risoluzione salutata dalla ministra Roberta Pinotti come il via libera alla missione di peacekeeping a guida italiana.