«Ma lo sai che qui è pieno di italiani?» La domanda di Sherif, un afghano sulla sessantina che parla un ottimo spagnolo, mi sorprende. Siamo a Calais, la città portuale a 30 km dall’Inghilterra che ormai la stampa italiana definisce come la Lampedusa francese. In che senso, Sherif? Dove sono gli italiani? La maggior parte degli afghani e dei pakistani che si trovano a Calais per provare a raggiungere l’Inghilterra parlano perfettamente l’italiano, hanno vissuto nel nostro paese anche per tre-quattro anni e posseggono il permesso di soggiorno per protezione sussidiaria, da rinnovare ogni cinque anni. Ma allora che ci fate a Calais se avete già i documenti in Italia? Abdul e Mahmud, trentenni che non desiderano altro se non lavorare dopo anni di sofferenze discutono con noi a lungo. Sono sicuri che se gli italiani fossero a conoscenza dei loro problemi farebbero qualcosa per aiutarli. L’Italia gli piace. Vorrebbero viverci e lavorarci. Ma non c’è più lavoro. Sono stati tra i primi a perdere il posto e dal 2012 si registra un vero e proprio esodo di afghani italiani verso Inghilterra, Francia e nord Europa. Ma il loro permesso di soggiorno non permette di lavorare al di fuori dell’Italia.

La situazione a Calais è stata molto tesa negli ultimi giorni. Mentre si avvicinava la Pasqua oltre 2000 disperati che fuggono da guerre, ingiustizia e povertà sono stati vittime di una brutale offensiva della polizia e dello Stato francese che li ha concentrati in un campo in un settore periferico e paludoso della zona industriale presso il centro d’accoglienza diurno Jules Ferry. I campi dove vivevano fino a poco fa sudanesi, etiopi, eritrei, afghani, pakistani, iraniani ed egiziani (Tioxide, Leaderprice e Gallo), sono diventati una distesa di rifiuti. Quello che resta è desolante. L’atmosfera è spettrale. Oggetti di vita quotidiana sparsi si mescolano ai numerosi falò ed al silenzio. La polizia li ha informati dell’espulsione il giorno prima, anche se le autorità ne parlavano già da febbraio. In Francia un’ordinanza d’espulsione dev’essere notificata da un usciere giudiziario previa denuncia del proprietario. Ma evidentemente quando si tratta di migranti la legge non è uguale per tutti. È bastato inviare qualche poliziotto ad intimidirli e cacciarli. Da questo fine settimana tutti coloro che desiderano raggiungere l’Inghilterra da Calais vivono in quest’area enorme e lontana dall’abitato dove mancano servizi igienici ed acqua. Dalle 14 alle 17 possono recarsi al centro Jules Ferry per sorseggiare un tè o un caffè, ci spiega Dina, una giovane ragazza del posto che lavora qui. Oppure possono essere accompagnati da un medico, usare i servizi igienici e ricaricare i telefoni cellulari. Dalle 17 alle 19 è il momento della distribuzione dell’unico pasto a cui hanno diritto. Presto saranno attive anche 70 docce. Inoltre un piccolo prefabbricato dalla capacità di cento posti accoglie le donne ed i bambini in situazione di difficoltà che lo desiderano. Quaranta dipendenti dell’associazione «La vie active» si alternano nel centro durante gli orari di apertura. Otto di loro sono educatori sociali, gli altri non hanno una formazione specifica legata all’accoglienza o alla mediazione. Ricapitolando, per il momento un migrante a Calais, confinato nei pressi del centro Jules Ferry, ha diritto ad un pasto al giorno, accesso ai servizi igienici per tre ore e fra qualche giorno anche ad una doccia.

Intanto è encomiabile il lavoro delle numerosissime associazioni e dei privati cittadini che sono al fianco dei migranti per sostenerli in questo ennesimo momento difficile. Nathalie, una donna quarantenne di Calais, ha portato il figlio di 7 anni a passare la domenica di Pasqua tra i sudanesi per aiutarli a costruire la loro nuova casa. Emmaus, Secours Catholique Caritas e Calais, Ouverture et Humanité sono solo alcune delle principali realtà che in questi giorni stanno aiutando i migranti a traslocare e a costruire nuovi ripari in un terreno sabbioso davvero indegno. Pierre ed una decina di volontari di Emmaus sono venuti da Reims per passare la giornata di Pasqua a costruire almeno quattro baracche con intelaiatura in legno e coperte di semplici teloni di plastica per proteggersi dal freddo e dalla pioggia.

Mafioso, mafioso! Safir, egiziano sulla cinquantina, mi racconta che è stato vittima di un imprenditore italiano con forti legami con la mafia e che sfrutta soprattutto gli egiziani sottopagandoli nel settore della logistica. In questo momento l’imprenditore è sotto indagine a Parigi.
Sayes, trentenne etiope, mi viene incontro gioioso. Dopo i riti dei saluti gli chiedo se possiamo fare qualcosa per lui. Mi chiede una Bibbia in inglese. Nient’altro. Malgrado le difficoltà e la fatica, la fede resta l’unica forza e l’unica certezza di questi uomini e di queste donne. Nonostante molte capanne siano ancora in costruzione, tre moschee con una capienza di una trentina di fedeli ed una chiesa ortodossa sono già state ultimate. È stato il loro primo pensiero.

I bambini di Asmara

Bambino, bambino! Elia e David hanno 12 e 15 anni. Gli altri eritrei con cui vivono li prendono in giro chiamandoli bambini. Vengono quasi tutti dalla capitale Asmara. Per loro l’ottenimento dell’asilo è quasi automatico in qualunque paese europeo. Il regime dittatoriale di Afewerki, al potere dal 1993, obbliga uomini e donne ad un servizio militare semipermanente, non accetta partiti d’opposizione né la stampa libera e indipendente. Elia, David, Daniel e gli altri hanno scelto di andare in Inghilterra perché parlano benissimo l’inglese e gli è stato detto che lì la vita è migliore. Salutiamo Daniel, quarantenne eritreo sposato con tre figli che non sente da un anno perché nel suo villaggio non è ancora arrivata la linea telefonica e non sa come comunicare con la famiglia. Mi dice che la prossima volta che ci incontreremo sarà al termine del regime in un bar ad Asmara.
Dopo anni di proteste, provocazioni e populismo il sindaco ed il ministro Cazaneuve hanno ottenuto quello che volevano. Gli oltre 2000 migranti che da Calais provano a raggiungere l’Inghilterra vivono ghettizzati oltre la zona industriale. Qui non daranno più fastidio a nessuno. Finalmente i turisti inglesi in vacanza potranno godersi tranquilli la città e le spiagge. Con grande lungimiranza si è deciso di tornare alla situazione del 2002, quando le centinaia di migranti di allora erano confinati in un paesino ad ovest di Calais, a Sangatte.

Lasciando Calais ci vengono in mente le parole di papa Francesco per la scorsa giornata della pace: «La globalizzazione dell’indifferenza, che oggi pesa sulle vite di tante sorelle e di tanti fratelli, chiede a tutti noi di farci artefici di una globalizzazione della solidarietà e della fraternità. Le possibilità di solidarietà verso questi migranti sono numerose: andare sul posto ed aiutare a costruire le baracche, inviare doni e denaro alle associazioni che operano sul posto, fare pressione sui nostri governanti per arrivare a leggi sulle migrazioni più eque. Insomma, non dimenticare di restare umani.