«Ho fatto conoscenza di lei (ne parlo come se fosse, ed è, una persona viva) nella primavera del 1938, in una gita domenicale in compagnia degli amici Pancrazi, Paoli, Russo e Calogero». «Lei» è la «Madonna del Parto» dipinta da Piero della Francesca e Piero Calamandrei la incontra, fasciata nella sua «veste di panno azzurro, tutta intera, attillata fino alla vita e poi ricadente nella gonna in larghe pieghe (…) che lasciano intravedere il bianco del sottabito: non per sciatteria, ma perché gli aghetti, che ancor bastano a chiuder la veste sul petto, sul ventre cresciuto non arrivano più».

In una fotografia dell’aprile di quell’anno, scattata a Vallombrosa, c’è Guido Calogero (impermeabile chiaro e basco ben calcato) accanto a Pietro Pancrazi (borsalino e bastone) e Luigi Russo in soprabito, giacca e panciotto, i pantaloni alla zuava.

Ugo Enrico Paoli è vicino a Pancrazi, ma a Urbino, in un’altra fotografia, che risale al maggio del 1937. «Tra il 1935 e il 1941, ci informa Silvia Calamandrei, un gruppo di amici percorre nei fine settimana i borghi della Toscana e dell’Italia centrale e Piero Calamandrei con la sua Rolleiflex ne è il fotografo ufficiale». «In Italia e specialmente in Toscana, ogni borgo, ogni svolto di strada, ogni collina, ha un volto, come quello di una persona viva (…) questi paesi sono carne della nostra carne e per la sorte di un quadro o di una statua o di una cupola si può stare in pena come per la sorte del congiunto o dell’amico più caro». Sono parole dette da Piero Calamandrei, Magnifico Rettore (annota nel suo diario: «La solita mascheratura accademica è stata fatta, mi pare, in modo da non far ridere») il 15 settembre del 1944 nel riaprire l’ateneo fiorentino. Leggo, nel prezioso «Un incontro con Piero della Francesca», stampato nella Piccola biblioteca degli oggetti letterari delle Edizioni Henry Beyle: «C’è tra Arezzo e San Sepolcro un piccolo paese che si chiama Monterchi, vicino al quale, in un camposanto in mezzo alla campagna, regna in solitudine il più bel quadro di Pier della Francesca, la ‘Madonna del Parto’, la celebrazione più solenne e più austera della gloria della maternità: non è passato un giorno che io non abbia pensato, come pensavo ai miei parenti ed ai miei amici in pericolo, a quel quadro abbandonato ai tedeschi». La guerra, che reca morte e lascia incolmabili dolori in chi resta, annienta affetti che sono, forse, balsamo al male di vivere. Le persone amate, cancellate nella loro unicità irripetibile. E una non riproducibile unicità fa il privilegio dell’opera d’arte, tale da renderla ‘persona’, ‘volto’ dice Calamandrei, che è «come quello di una persona viva».

L’opera d’arte è viva quando vive d’una relazione che viva la muove in noi. Opera d’arte come educazione sentimentale, contesto di affetti. Concentra in una forma compiuta le emozioni che, stabilito il contatto, si alimentano per disporsi, secondo un processo di congrue appropriazioni, entro di noi.

Emozioni che si depositano a decantare la materia per la quale ci diciamo umani. Così, riconosciamo ‘umana’, nel sigillo della ‘persona’, l’opera d’arte. «Non si tratta di letteratura si tratta di vita», avverte Calamandrei: la nostra vita individuale si riconosce in quell’individualità composta in pittura, in poesia, in paesaggio.

Da qui l’ansia, l’apprensione per il destino dei luoghi e delle opere e l’esigenza, per ciascuno di noi vitale, della loro salvaguardia. La demolizione d’un’architettura; la cancellazione di un quadro; la violenza che sfigura le città sono violenza, cancellazione, demolizione che volgo contro la mia persona.