Scriveva Baudelaire, in una pagina della sua Ecole païenne, che «la passione frenetica dell’arte è un cancro che divora il resto; (…)la specializzazione eccessiva di una facoltà sfocia nel nulla… Bisogna che la letteratura vada a ritemprare le sue forze in un’atmosfera migliore. Vicino è il momento in cui si capirà che ogni letteratura che si rifiuti di andare avanti fraternamente fra la scienza e la filosofia è una letteratura omicida e suicida». Non sarà forse un caso che su questa pagina – che sancisce la necessità della creazione artistico-letteraria di assorbire fertilmente nutrimenti conoscitivi, capaci di andare ben oltre il solo dominio assoluto dell’estetico – Roberto Calasso si fermasse già qualche anno fa, in un luogo importante del suo La letteratura e gli dei. Si potrebbe ricominciare proprio da queste righe per attraversare non tanto o non solo La Folie Baudelaire – il saggio-racconto consacrato da Calasso proprio al poeta delle Fleurs du mal, nel 2008 – ma soprattutto per leggere con qualche consapevolezza in più il suo ultimo lavoro, Il cacciatore celeste (Adelphi, «Biblioteca», pp. 508, euro 27,00), nel quale questa triplice e necessaria alleanza fra Letteratura, pensiero filosofico e ricognizione scientifica potrebbe fare da prima bussola di orientamento.

Oggetto del libro è appunto la figura del cacciatore, o meglio ancora la dimensione del cacciare, che qui è osservata come una sorta di ‘forma primaria’: l’inchiesta risale sino a certi strati preistorici della vicenda dell’homo sapiens, non senza proporsi in diverse sortite in direzione del mondo antico-orientale, o dell’Europa moderna (da Descartes a Malebranche a Henry James, per fare solo tre nomi fra i molti proposti). Ma a essere indagata è anzitutto la tradizione greca e latina: se lo si guarda da questa tutt’altro che secondaria angolazione, Il cacciatore celeste risulta allora un parente piuttosto stretto di quella grande mappatura del mondo mitologico classico che erano Le nozze di Cadmo e Armonia. A campeggiare, stavolta, sono naturalmente alcuni miti venatori, e non di rado tragici, come quello di Orione: Cacciatore Celeste – cui dunque allude il titolo stesso del volume – sulla cui nascita si fronteggiano versioni differenti, e la cui morte, provocata da Artemide, segna la sua ascesa in cielo, fra le costellazioni. Tale epilogo, avverte Calasso, implica la «fine dell’èra delle metamorfosi», l’età in cui le forme della realtà erano fluide, e gli dei, gli animali, gli uomini e i morti potevano confondersi. La storia di Orione è dunque l’indizio di una svolta decisiva: l’«invisibile» comincia ad allontanarsi, a rendersi definitivamente inafferrabile dagli uomini.

La caccia è dunque un differenziale insostituibile per riconsiderare l’intera storia umana, nella ricostruzione offerta, ovvero un punto di osservazione privilegiato anche perché in grado di riallacciare i legami originari con gli altri due elementi che accompagnano sin dall’inizio questa stessa storia: da una parte l’animale, che nella caccia «nega se stesso», e da cui l’uomo – che dell’animale tenta l’imitazione, in primo luogo nel suo farsi predatore – finirà col distinguersi; e dall’altra, naturalmente, gli dei. A saldare insieme questi tre elementi è l’esponente – terribile quanto indispensabile – del sacrificio, il cui fondo misterioso rimane intatto: «Placare un’entità invisibile: sentimento che si può facilmente comprendere. Ma perché il placamento debba avvenire attraverso l’uccisione di un animale è una conseguenza che non è mai stata chiarita fino in fondo. (…) Ogni altra domanda sul sacrificio è dipendente da questa». La letture di Calasso, quanto a questo nodo, si estendono fino a Teofrasto – al «godimento» del mangiar carne, sotteso alla pratica sacrificale – o fino al Timeo platonico, alla necessità che il mondo avrebbe di procurarsi «la propria distruzione». Ma non si può non pensare, intanto, alla stessa biblioteca ‘di casa’, al catalogo Adelphi, e a due sue nomi illustri quali il René Girard de La violenza e il sacro, o il Walter Burkert de La creazione del sacro (cui potrebbe risalire anche il tema della relazione fra colpa e religioso: vedi almeno certe pagine del capitolo dedicato a Sapienti e predatori, il quinto).

Dalla pratica della caccia si passa però poi suggestivamente, lungo il libro, alla caccia come ‘gesto del pensiero’, insomma alla sua metaforizzazione (indicativo, a tal proposito, un cenno che riguarda peraltro non i moderni, ma già la figura archetipale di Artemide: «per lei l’arco era il pensiero»). Notevole, in tal senso, e utilissima nel fornire una chiave di lettura che aiuti a entrare nell’intero arco del discorso, è la sezione incentrata su Platone – in particolare sul Platone delle Leggi, oltre che di un testo meno centrale come l’Epinomide. Il lettore vi incontra alcuni asserti di fondo come quello sul legame fra caccia e conoscenza e, ancor più nel dettaglio, «fra la conoscenza e l’atto di colpire». Con l’Ateniese – il protagonista del dialogo platonico – si passa «dall’eros rivolto agli ‘amati’, erómenoi, alla guerra, alla caccia alle lepri, allo studio dei corpi celesti: un unico filo lega queste attività. È la caccia». Ecco perché ciascuna delle parti che compongono il Cacciatore può ambire a toccare argomenti apparentemente lontanissimi dal suo fulcro: grazie all’interiorizzazione di quel gesto primo, o a quel demone dell’analogia che consente di «stabilire una identità di struttura fra la mente umana e l’universo», per dirla con le parole di Simone Weil citate proprie in questi stessi paragrafi sulle Leggi (tanto che il ventaglio degli spunti può allargarsi fino ad abbracciare un eroe del mondo scientifico quale Alan Turing).

I custodi dei più vari specialismi potranno magari eccepire – come è stato del resto già fatto – su qualche maglia un poco larga nella trama dell’argomentazione. A ciò si potrebbe opporre quello che per Montale – e per un adelphiano come Bobi Bazlen – era la migliore delle pratiche: un «dilettantismo superiore», e aggiungiamo pure vitale.

È abbastanza facile intuire che Il cacciatore celeste è un ibrido dedito alla mescolanza, un libro che contiene altri libri, e che ad altri ancora allude (senza peraltro incorrere nel pericolo maggiore di certo filologismo: il compiacimento). Il merito del suo autore sta anzitutto in questa intenzione di ‘cucire insieme’, di rileggere, per frammenti, un intero mondo, e di tornare con costanza alle medesime ossessioni antropologiche: sullo stesso sacrificio si imperniava già La rovina di Kasch (1983), cioè il passo d’esordio di Calasso, l’avvio di quell’«opera in corso» – da Kafka a Tiepolo alla Grecia all’Oriente – cui alludono regolarmente i suoi risvolti di copertina. A guardarla dal fondo – dal suo ottavo e, ad oggi, più recente punto d’approdo – quest’opera ci appare come un lungo affresco sul tema della Separazione fra gli dei e gli uomini. E sulla appartata sopravvivenza, fra questi ultimi, di uno sparuto gruppo di ánisoi, di «disuguali».

Quanto ancora debba, Calasso, a certa grecità iniziatica – e al Colli della Sapienza greca – lo testimonia anche solo il congedo del Cacciatore, il cui sipario scende proprio su Eleusi. Per tornare a Eleusi occorrerà allontanarsi da quei Misteri, «rientrare nella vita comune – e poi lasciarla di nuovo». Il premio per la ‘seconda vista’ del Sapiente – un Sapiente pur tutto moderno, ormai, ricolmo di malinconica erudizione – non sarà forse l’incontro con gli dei, ma almeno il loro ricordo