C’è un verso di Pasolini che dice: «Restare dentro l’inferno con marmorea volontà di capirlo», «e con l’impossibilità di non amarlo, aggiungo io, questo faceva Claudio nei suoi film, raccontava quella pasoliniana malvagità della borgata: non la giustificava ma la comprendeva, non giudicava i personaggi, l’unica preoccupazione era quella di rappresentarli coerenti con la propria essenza. Questa per me è la sua grandezza». L’immagine di Claudio Caligari cammina con le parole di Francesca Serafini, autrice insieme a lui e a Giordano Meacci della sceneggiatura del suo ultimo film, Non essere cattivo, quella storia tra le altre invece naufragate che Caligari è riuscito a girare, tra febbraio e aprile di quest’anno, e poi a montare a maggio, mese della sua morte, a 67 anni. «La verità – aggiunge Serafini – è che Claudio ha vissuto tre, quattro mesi in più rispetto a quanto avevano pronosticato i medici. È stato un tempo fondamentale». E Non essere cattivo, arriverà anche in sala, l’8 settembre, distribuito da Good Films e prodotto da Valerio Mastandrea con Kimerafilm, Rai Cinema, Taodue Film e Leone Film Group. Ma prima, il 7 settembre, sarà evento speciale fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia.
«Fuori concorso. Come nella vita»: così hai commentato sul tuo profilo Facebook la notizia di Venezia.
Sì, ma la mia non era una polemica, intendevo proprio che quella era invece una sorta di rappresentazione perfetta. Claudio è stato un outsider, aveva storie da raccontare ma era inclassificabile, non semplicemente un regista di genere e senza l’arroganza di quanti si autocelebrano come autori di nicchia. Non potevi attribuirgli nessuna etichetta. Ecco, penso a un film come Amore tossico: era tragico ma anche divertente. Claudio non aveva un’idea manichea, della vita così come dell’arte.
Cominciamo dal principio, dall’incontro con Caligari.
Non ci conoscevamo, sono strani certi incroci nella vita. Nel 1992 con Giordano Meacci ed altri alla Sapienza di Roma fondammo l’Accademia degli Scrausi, un gruppo di giovani linguisti che cercava di applicare i propri strumenti di analisi su forme all’epoca poco studiate, se non bistrattate in ambito accademico, come la canzone o il cinema. «Scrauso» era un termine romanesco del Cinquecento, significava «sciocco» e secoli dopo diventerà «scadente», «di scarso valore». Proprio in Amore tossico ci sono frasi del tipo «Questa è robba scrausa» in riferimento alla droga di pessima qualità. Ecco, per noi il cinema di Claudio fu una scoperta straordinaria, Amore tossico l’ho visto in quegli anni. La famosa scena della ragazza che si inietta l’eroina nel collo l’avevano girata dietro casa mia, ci passeggiavo da bambina lì, quindi puoi immaginare la gioia quando ha voluto incontrarci per Non essere cattivo, ma avevamo anche paura di non essere all’altezza. Prima di tutto ci ha sottoposto a un’interrogazione su Scorsese, autore per lui importantissimo, e per fortuna ce la siamo cavata molto bene. È stata una collaborazione straordinaria, non è mai salito in cattedra con noi.
Non essere cattivo che film è?» Come si colloca nella sua breve filmografia, a 17 anni da «L’odore della notte?
L’idea di Claudio era quella di realizzare una sorta di terzo atto di una trilogia ideale: il primo atto è Accattone, dunque un film non suo ma di un riferimento imprescindibile per lui come Pasolini. Il secondo è Amore tossico, i ragazzi di vita che negli anni Ottanta incontrano la droga. Non essere cattivo è il terzo atto, ancora la borgata, ma negli anni Novanta: dall’eroina, allora, alla cocaina e alle droghe sintetiche. E i due protagonisti maschili del film si chiamano proprio Vittorio, come il Franco Citti di Accattone, e Cesare come il protagonista di Amore tossico. Siamo agli albori della società berlusconiana, fare i soldi facili, che in borgata vuol dire spacciare. Vittorio e Cesare iniziano così, si concedono macchine di lusso, donne… A un certo punto Vittorio incontra Linda e vuole mettere la testa a posto, inizia a lavorare e vuole coinvolgere anche Cesare che invece sprofonda, nonostante una ragazza come Viviana. Ecco, uno dei temi del film è il fallimento del lavoro come valore in borgata: a lavorare sono i poveri, c’è quello oppure si delinque. Ma è soprattutto la storia di una grande amicizia, Cesare e Vittorio sono come fratelli, fino all’ultimo. In un certo senso nessuno riesce a «salvarsi», ma Claudio ci teneva a voler dare una speranza, o meglio, un’apertura: l’ultima inquadratura è su un bambino appena nato. Gli attori sono stati straordinari, di una dedizione totale, con Giordano Meacci abbiamo avuto la fortuna di vivere molto il set: una gara tra giganti tra Alessandro Borghi, Luca Marinelli, Silvia D’Amico e Roberta Mattei, tutti in uno stato di grazia, struggenti nella loro bravura.
C’è tutto il film nel titolo, dunque.
Claudio quel titolo l’aveva già ben chiaro, io e Giordano ne siamo rimasti affascinati immediatamente. Oltre a essere bello in sé – perché è qualcosa di dolce, un augurio, un consiglio – riesce in effetti proprio a contenere un film che è racconto di gente che ci prova a non essere cattiva, ma essere cattivo in certi contesti significa difendersi, per non soccombere e sopravvivere. Per quanto mi riguarda è un film drammatico ma si ride anche tanto, un po’ come Amore tossico e L’odore della notte, sebbene stilisticamente diverso, con una costruzione narrativa che Claudio desiderava più stringente rispetto a quei lavori, in particolare rispetto ad Amore tossico che guardava molto alla forma documentaria. C’è tutta la sua consapevolezza estetica ed etica ma non è un film per pochi, ci teneva molto a questo. Ci sono sparatorie, scazzottate, è un crime, o forse un western, il cinefilo può ritrovarvi i riferimenti a Mean Streets, a Marco Ferreri, a Pasolini ovviamente, la grande cultura cinematografica di Claudio applicata alla borgata, ma è un film per tutti, ognuno può prendersi ciò che vuole. Tra sceneggiatura e le riprese è passato parecchio tempo: i finanziamenti da trovare, la famosa «lettera» di Valerio a Scorsese… Valerio era sul punto di partire con il suo film da regista, tratto da La profezia dell’Armadillo di Zerocalcare, ma ha congelato tutto per permettere a Non essere cattivo di approdare a uno sviluppo produttivo. Questo è straordinario, qualcosa che in pochi avrebbero fatto.
Quanto assomigliava Caligari ai suoi film e a quest’ultimo in particolare?
Molti raccontano Claudio come uno scorbutico, in realtà era molto rigoroso, questo sì, ma anche una persona molto dolce. Ricordo che l’11 marzo, eravamo sul set, mi chiama in disparte e, dalla sua ventiquattrore, quella dove teneva i suoi appunti, tira fuori un mazzetto di mimose. Non erano proprio freschissime, visto che l’8 marzo era passato ma voleva darmele lo stesso. Ero la donna del gruppo e anche questa era per lui, che aveva sempre lavorato con uomini, un po’ una novità. Per questa intervista sono andata a ripescare le tante mail scambiate con Claudio: in una c’è un riferimento a questo orsetto, un peluche che nel film Cesare ruba per regalarlo a sua nipote, malata. La linea narrativa della bambina e del suo peluche è qualcosa a cui Claudio teneva tanto, da piccolo ne aveva uno a cui era molto legato e per questo ne ha voluto uno simile. Lo riportava alla sua infanzia, certo, ma quello che voleva dirci è quanto sia importante non avere paura dei propri sentimenti.