Theresa May ha chiuso il congresso annuale del suo partito a Birmingham con un messaggio in perfetto stile dadaista, dicendo che i Tories sono il partito dei lavoratori.

In realtà, dietro tanta creatività stanno due cose: lo scaricamento fuoribordo dell’eredità di Cameron & Osborne, ragazzotti privilegiati che giocavano a fare i liberisti e si erano presi troppe licenze nello schiacciare i deboli, e il vuoto lasciato dagli annichiliti moderati del Labour, che provoca copiosa salivazione nelle fauci conservatrici.

Dunque, si lascino del tutto perdere i paragoni con Margaret: Theresa è compassionevole, ha sì a cuore la piccola borghesia che legge il Mail e l’Express, ma il prevalere della grettezza insulare che ha portato al Brexit in fondo in fondo non le piace. Le piace Keynes, invece. E si è unita al coro, ormai assordante in questo Occidente che corre sul posto, di quelli che vogliono un ritorno dello stato nell’economia, che lamentano le storture del far west finanziario. Pareva di sentire Ed Miliband.

Come leader, May è stata la scelta più sicura per i Tories, soprattutto dopo il festival di coltellate alla schiena con cui il partito ha inaugurato il post-Cameron/post-Brexit. La sua gestione al ministero degli interni è stata lodata, la sua pudicizia mediatica additata a modello.

Certo è che finora non ha saputo tirare fuori uno straccio di roadmap per affrontare il doloroso commiato, a parte il dare alla platea degli uscitisti, apparentemente affamata di autodeterminazione e sovranità (in realtà spaventata e incattivita dall’Altro incarnato dai migranti) una data per l’innesco del conto alla rovescia del famigerato articolo 50, quello che in due anni dovrebbe rendere il paese definitivamente extracomunitario: la fine di marzo 2017.

[do action=”quote” autore=”Theresa May”]«È tempo di ricordare che il governo può fare del bene ed essere una forza di cambiamento. I Tories sono al centro, siamo noi il partito della working class»[/do]

Ma non importa.

In fondo nessuno sa ancora un accidente di cosa vada fatto, primi fra tutti l’improbabile trio da lei designato a gestire una transizione d’inimmaginabile complessità e lunghezza: due scongelati ultrà della destra del partito (David Davis e Liam Fox) più il malus dell’ineffabile Boris Johnson, dal quale – pur avendo richiamato le monellesche chiome all’ordine, indossato un volto grave e posto fine alle fotografie clownesche nell’impari compito di guadagnare rispettabilità –, è lecito aspettarsi altra di quella politica dell’entertainment di cui è insuperato maestro.

Per questo, dopo aver sostanzialmente eluso la questione, ripetendo ormai per la milionesima volta «Brexit is Brexit is Brexit» come nemmeno Gertude Stein e limitandosi a dire che le negoziazioni non saranno rese pubbliche (non sia mai che si finisca per fornire alla controparte delle leve che ledano l’interesse nazionale), May si è lanciata al galoppo nelle vaste praterie del centro, totem e tabù di ogni maggioranza e opposizione in questa nottata liberal-democratica dove tutte le vacche sono ormai – se non nere – perlomeno uguali.

E l’ha fatto in grande stile, facendo sembrare i simili, precedenti tentativi di Cameron nella cui assenza fisica e nei dibattiti a Birmingham sta tutta la spietatezza di un partito abituato a gestire il potere con chiunque si dimostri capace di farlo. Perché qualcuno (di loro) deve pur farlo.