La riforma del fisco proposta da Renzi? Susanna Camusso la boccia completamente: «Vedo la riproposizione delle idee di Tremonti, e la rincorsa della Lega sulla flat tax – spiega – È quella visione liberista per cui basta tagliare le tasse e il Paese riparte. Così come l’ha presentata il premier è una misura iniqua, abolire la quota di Imu significa favorire gli alti redditi sulle cui case ancora grava». Gli interventi a favore di pensionati e lavoratori vengono rinviati al 2018, «difficile non vederci un sapore elettorale», mentre gli sgravi alle imprese sembrano programmati ancora una volta a pioggia, «senza vincolarli, come si dovrebbe, verso la ricerca, l’innovazione e l’occupazione». La nostra lunga intervista con la segretaria della Cgil si svolge nel suo studio in Corso d’Italia, dove campeggia un enorme poster di Anna Magnani: il fisco, la Grecia e Tsipras, lo Statuto delle lavoratrici e dei lavoratori che il sindacato pensa di presentare in ottobre, le prossime mosse contro il Jobs Act e la riforma della scuola, l’organizzazione della Cgil e la sua “sburocratizzazione” per dare più spazio ai lavoratori e ai delegati. Ma anche la sicurezza sul lavoro che i morti della fabbrica di fuochi artificiali di Bari riporta in primo piano: «Li chiamano effetti collaterali, sì ma della deregulation, delle continue richieste di abbassare i costi, di liberarsi di lacci e lacciuoli. E intanto si continua a morire per mancanza di rigorosi controlli»,

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La svolta “reaganiana” di Renzi e del Pd quindi non vi convince.

Con una battuta dissi che ci vedevo una sorta di tatcherismo. Noi continuiamo a essere convinti che ci vorrebbe una grande riforma del fisco, ma di segno assai diverso: uno dei grossi problemi del sistema italiano è che c’è una scarsissima tassazione del patrimonio, mentre restano penalizzati i lavoratori e i pensionati e non sono incentivati gli investimenti produttivi. Togliere la tassa sulla prima casa è utile se si seleziona, se si parla di chi ha solo quella, di chi ha investito tutti i suoi risparmi e il suo lavoro per acquistare l’abitazione in cui vive. Diverso è detassare la prima di una serie di case. In questo vedo un ritorno alle idee di Tremonti e una rincorsa alla Lega sulla flat tax. E questo non solo sulla casa, ma anche sul taglio di Irap e Ires, sui contributi dati a pioggia, e sull’idea di tornare a due sole aliquote Irpef. Anche questa è una soluzione che alimenterebbe grandi ingiustizie perché, di fatto, andrebbe a favorire solo i ricchi. Si dovrebbe puntare piuttosto sulla detassazione dei redditi delle fasce medio-basse, dei lavoratori e dei pensionati: non solo per una giustizia redistributiva, ma anche perché è l’unico modo per far ripartire il mercato interno e dare fiato all’economia. E tutto questo al netto delle risposte che l’Europa darà al nostro governo. Io un dubbio ce l’ho: siamo certi che basti poco per ottenere la flessibilità necessaria all’impianto annunciato da Renzi? E domando: dove sta una lotta forte contro l’enorme evasione fiscale?

Il problema resta sempre quello di muoversi dentro i rigidi parametri europei. Come avete giudicato il tentativo di Tsipras di sfidare le attuali logiche del rigore? Ha fatto bene alla fine, e dopo il referendum, a firmare un accordo così pesante per la Grecia pur di restare nell’euro?

Io credo che Tsipras abbia lavorato sempre con l’idea di restare in Europa, e che alla fine, pur avendo accettato condizioni obiettivamente pesanti per il proprio Paese, abbia almeno ottenuto come risultato un pezzo di ristrutturazione del debito. Penso che dobbiamo ringraziarlo, perché ha lasciato accesa una lampadina, una luce per chi crede che il tema oggi sia quello di rimanere in Europa, ristrutturando i debiti e cambiando le politiche di austerità. E lo ha fatto in piena solitudine, nell’assenza assoluta di un dibattito tra posizioni diverse e nell’afasia della socialdemocrazia europea. Di fronte a lui c’era di fatto una posizione unica. E non hanno certo aiutato i tweet di chi, ad esempio dal nostro governo, riduceva tutto alla scelta euro o dracma. Il nodo non era quello: non stavamo parlando di una piccola nazione ribelle, ma della più grande crisi politica dalla creazione dell’Unione europea.

Molti, dalla Lega all’M5S, e anche pezzi di sinistra, ritengono che non si debba rimanere nell’euro a tutti i costi, e che anzi faccia bene uscirne.

Se penso a una riedizione della perenne svalutazione della moneta per competere, o al prezzo altissimo che pagherebbero lavoratori e pensionati con un ritorno alla lira, non vedo in questa proposta alcuna positività. Al contrario, è la solita idea che per competere si deve abbassare la qualità, i salari e i diritti di chi lavora. Noi, invece, crediamo in una competizione che è esattamente agli antipodi. Crediamo ancora in una idea di Europa forte, unita, in un panorama mondiale multilaterale dove non può avere senso ritornare ai centralismi nazionali.

Il sindacato europeo può incidere per un nuovo ordine del Continente, più equo e a misura delle persone? Finora anche da quel fronte non è venuta una grossa alternativa al “pensiero unico” del rigore: i sindacati tedeschi, ad esempio, in molte occasioni sono sembrati più schierati con Merkel che con i greci.

Noi vogliamo provarci, e cercare di eliminare le resistenze che necessariamente esistono quando si discute tra 70 organizzazioni sindacali provenienti da stati con interessi nazionali diversi o addirittura in contrasto tra loro. Si pensi alle recenti tendenze di alcuni paesi nordici di chiudersi nell’orizzonte dei propri confini. Questo, inevitabilmente, si riflette anche nei lavoratori. Con la Ces abbiamo una piattaforma che dice no al fiscal compact, e se non arriva a chiedere la mutualizzazione del debito, parla però di eurobond per un nuovo piano di sviluppo e del lavoro. In ottobre ci concentreremo sul cosiddetto «salario anti-dumping», che non è il salario minimo europeo, ma quello sotto cui non si può scendere per non creare una competizione scorretta sul costo del lavoro.

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A proposito di differenze all’interno dell’Europa, l’Italia resta uno dei pochi Paesi dove non c’è un reddito minimo. Nel sindacato siete sempre contrari a questo strumento?

Non siamo contrari all’idea di uno strumento di inclusione, ma vorremmo che il welfare rimanesse sempre legato all’obiettivo della piena occupazione: bisogna dare alle persone la possibilità di rendersi autonome e indipendenti grazie al loro lavoro, mentre se eroghi solo assistenza, senza legarla ad azioni per creare occupazione e sviluppo, per ricollocare chi ha perso il lavoro, il rischio è di dualizzare la società. Da un lato chi può pensare al futuro avendo un proprio reddito da lavoro, e per questo essendo forte e indipendente, dall’altro chi rimane perennemente legato a un sussidio e deve spartirsi le briciole.

Nel nuovo Statuto delle lavoratrici e dei lavoratori ci sarà spazio anche per autonomi e precari?

Se si vogliono dare diritti universali a tutto il mondo del lavoro, non può che essere così. Pensiamo sia indispensabile elaborare un nuovo Statuto che abbia nella sua prima parte, quella dei principi generali, i diritti imprescindibili dei lavoratori, qualsiasi contratto o rapporto abbiano. Sarà poi più difficile declinare questi concetti, che dobbiamo stabilire per tutti, nei contratti, ma per questo pensiamo alla contrattazione inclusiva, che ponga sempre accanto a chi ha un contratto tipico, un corredo di diritti e tutele per le altre figure. Questo non può comunque voler dire avere solo attenzione alle nuove figure professionali. Il lavoro non si evolve tutto e solo verso la professionalizzazione e l’immaterialità: nell’edilizia e nell’agricoltura permangono condizioni fordiste, spesso ai limiti di una vera e propria schiavitù. In futuro quando si penseranno nuove leggi o si contratteranno le condizioni di lavoro e i salari, si dovrà davvero tenere conto di tutti, coinvolgere e far pesare anche queste figure.

Come state preparando lo Statuto e quando sarà pronto?

È in corso un approfondito dibattito, e abbiamo recentemente dedicato un Direttivo a questo tema. Stiamo consultando giuslavoristi con posizioni e visioni diverse tra loro. In autunno avremo anche incontri pubblici. Infine stiamo discutendo e collaborando con le associazioni dei precari, delle professioni e dei freelance. Non nascondo che a volte emergono posizioni diverse e distanti, ma il dibattito serve proprio a sciogliere i nodi. Dopo la Conferenza di organizzazione, che si svolgerà il 17 e 18 settembre, probabilmente a ottobre passeremo all’elaborazione della proposta di legge, e la sottoporremo alla consultazione non solo di iscritti e lavoratori.

Tornerà la giusta causa per i licenziamenti?

Noi continuiamo a essere convinti che il licenziamento illegittimo si debba sanzionare con il reintegro del lavoratore. Ovviamente – visto che lo Statuto riguarderà anche diverse figure contrattuali – dobbiamo discutere di tutte le forme possibili e utili a dare tutele a un mondo del lavoro diversificato. Nella discussione, quindi, ci sono anche posizioni e idee che fanno riferimento ai risarcimenti e, soprattutto, alla certezza di un procedimento giuridico grazie al quale il lavoratore potrà agire la sua causa.

Ci sarà anche un momento referendario? Si parla, anche a sinistra, di diversi referendum, dal Jobs Act fino alla scuola.

Un referendum non si può inventare su due piedi raccogliendo le firme tra luglio e agosto. Va pensato e preparato bene. In questa fase è prioritario il momento della proposta. Noi preferiamo costruire la nostra mobilitazione avendo alle spalle una proposta forte, quella del nuovo Statuto delle lavoratrici e dei lavoratori. Oppure, per la scuola, un progetto serio e nuovo di riforma. I referendum allora potranno essere uno strumento utile a sostenere le nostre battaglie.

Le vostre mobilitazioni – contro il Jobs Act insieme alla sola Uil, contro la “buona scuola” anche con la Cisl – sembrano non aver funzionato: Renzi ha imposto comunque le sue riforme con la fiducia. Vi sentite sconfitti?

Già nel corso dello sciopero del 12 dicembre dicemmo che il governo avrebbe tentato di imporre in tutti i modi un voto favorevole alla delega, e per questo avvertimmo che la nostra sarebbe stata una lotta lunga, da svolgere con diversi strumenti e che non poteva puntare a dire no a un voto del Parlamento. Certo, i risultati non sono ancora quelli utili ma, ad esempio, nella legge sugli appalti, grazie alle proposte e alle pressioni che abbiamo compiuto sul Parlamento, abbiamo registrato avanzamenti. Stiamo cercando di correggere le storture del Jobs Act con la contrattazione con risultati apprezzabili. In merito ai rapporti unitari, il disaccordo con la Cisl sulla legge delega ha certamente indebolito la posizione del sindacato. È invece importante l’unità sull’obiettivo di arrivare, presto, a una riforma delle pensioni. Sulla necessità di ridiscutere in questo momento un modello contrattuale non siamo d’accordo, ma è un bene che sia la Cisl che la Uil dicano insieme a noi che i contratti si devono rinnovare.

A proposito di contratti, Carmelo Barbagallo della Uil chiede di modulare gli aumenti sull’andamento del Pil, e non dell’inflazione. Voi cosa ne pensate?

Io ritengo che si deve cambiare completamente prospettiva. Non possiamo continuare nella logica del 1993, quando ancorare i salari all’andamento dei prezzi poteva avere un senso avendo un’alta inflazione. Inoltre, allora, si decise di dare attuazione alla politica dei redditi. Oggi è indispensabile puntare non solo alla difesa del potere di acquisto ma se possibile ad aumentarlo. Ed è con gli aumenti salariali che è possibile rilanciare il mercato interno e l’economia.

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Nei mesi scorsi c’è stata una polemica con la Fiom di Landini, la richiesta di una maggiore democrazia e partecipazione nel sindacato. Nella Conferenza di organizzazione di settembre proporrete una nuova Cgil?

Cambieremo la composizione degli organismi, a partire dal Direttivo nazionale, e faremo in modo che la maggioranza dei loro componenti siano lavoratori in produzione. Sarà una decisione che coinvolgerà tutte le nostre strutture. Quello che non si potrà mai fare è snaturare la nostra confederalità: dare il giusto peso a tutte le nostre categorie, anche a quelle piccole. Si può fare solo in un sistema temperato di democrazia delegata. È necessario riequilibrare la rappresentanza affinché si eviti il predominio della categoria più grande su quella più piccola. Ad esempio non possiamo applicare a tutta la Cgil i meccanismi del sindacato dell’industria dove l’elezione delle Rsu è diffusa; ci sono altre categorie in cui, per la loro struttura produttiva faticano ad eleggerle. Non credo alle primarie nel sindacato, mi pare che portino più all’autoritarismo e al leaderismo che alla democrazia. Se il segretario generale è eletto dal popolo, quale organismo eletto per altre vie potrà mai dirgli che sbaglia? Uno dei maggiori difetti che vedo nella politica attuale è proprio l’eccesso di leadership personale, e non credo sia utile ripetere questa distorsione anche nel sindacato, che invece ha bisogno di collegialità.

Non vi sentite orfani di una rappresentanza a sinistra? Vedete la possibilità che si formi un partito di sinistra veramente popolare e con grossi numeri?

Non c’è dubbio che c’è un vuoto inedito nel campo della sinistra, e non solo nel nostro Paese. Mi pare che la crisi europea nell’ultimo mese abbia evidenziato problemi anche dove si sono riusciti a strutturare partiti nuovi, come in Grecia e per qualche verso in Spagna, dove sono sorti nuovi soggetti politici nati da un cambiamento radicale o facendo scomparire e riassorbendo i partiti tradizionali. Da noi di tutto questo non vedo traccia, anzi continuo a vedere un’antica legge – meglio sarebbe dire malattia – della sinistra: la capacità a dividersi è sempre superiore a quella ad unificare.