«Quando guardi un film, c’è una certa distanza tra te e lo schermo. Fisicamente parlando, un libro è molto più vicino al cuore, al cervello». Per David Cronenberg (come spiega in un’intervista al sito Flavorwire), la scrittura del romanzo «è molto più interiore, intima», rispetto a quella del copione di un film; una scrittura «in prima persona, almeno dal punto di vista emotivo».
Filtrata dalla sublime illusione di neutralità dello sguardo con cui il regista di La mosca e Cosmopolis ci ha portati in luoghi inavvicinabili della coscienza e dell’immaginario, quell’esperienza – intima, interiore, in prima persona – è tangibilissima nel romanzo d’esordio di Cronenberg, Divorati (Bompiani, pp. 343, euro 18.50). Insieme a seni ricolmi d’insetti, chirurghi ungheresi di dubbia fama, stampanti tridimensionali che riproducono i resti mutilati di un corpo, Sartre e Psycho; Marx e la margarina Crisco; la sindrome di Peyronie (che curva il pene fino a farlo sembrare un boomerang) e il virus di Roiphe (una malattia venerea che nella realtà non esiste); le passioni cinefile di Kim Jong-il e una riunione della giuria al festival di Cannes.
Tratteggiato su una mappa che spazia tra Parigi, Toronto, la Costa azzurra, Budapest, Tokyo e Pyongyang, con la cura «chirurgica» per il dettaglio che caratterizza la visione cronenberghiana, e ricco di suggestioni letterarie che rimandano a scrittori su cui il filmmaker ha lavorato (James Ballard, Don DeLillo e William Burroughs), Divorati è un intrigo internazionale in cui le ossessioni chiave del regista – il corpo, la macchina, la malattia e i loro reciproci innesti – si accavallano alla sua biografia. In un’intervista in cui parlava del libro, Cronenberg ha detto che, per scriverlo, ha «cannibalizzato» la sua vita e quella di chi gli sta intorno.
L’uso della parola «cannibale» è adeguato per più di una ragione. Non solo, fin dalle prime pagine, s’insinua la possibilità che, in un raffinato salotto intellettuale parigino, sia avvenuto un mostruoso pasto a base di carne umana. Cannibale è, nel pensiero dei due anziani filosofi protagonisti di Divorati, l’ultimo stadio della società dei consumi (nella traduzione italiana del titolo si perde purtroppo il doppio senso di quello inglese, Consumed) e, nel racconto di Cronenberg, cannibale è anche un’umanità sempre più impegnata a fagocitare se stessa attraverso la riproduzione e la diffusione di suoni e di immagini. L’equivalente del virus/videoregistratore che si impadroniva di James Woods in Videodrome oggi è la rete…
È difficile, infatti, già nella prima scena del romanzo, capire chi guarda (uno schermo) e chi ne è guardato. Le realtà multiple di Divorati spesso validate solo nel momento in cui vengono digitalmente assorbite e inviate online (lo scanner laser come l’Eclair NPR che usavano i registi della Nouvelle Vague, si legge a un certo punto).
Naomi è una fotogiornalista tabloid, una Weegee dell’era internet, accessoriata di ogni possibile strumento di registrazione sonora, fotografica e video, a caccia di storie scandalose come quella che da New York la porta a Parigi, a investigare la misteriosa morte di Celestine Arosteguy, celebrata metà di un’amatissima coppia di filosofi (più Sartre/de Beauvoir che Bertrand-Henry Levy/Dombasle, precisa Cronenberg) noti per i loro studi sui consumi, lo spensierato libertinaggio intellettuale/sessuale e per occasionali filospasmi, in cui un coniuge indulge con entusiasmo all’improvvisa patologia fisio-filosofica dell’altro – non importa quanto irragionevole sia l’avventura del corpo e della mente.
Con i suoi resti sanguinanti rinvenuti vicino a quelli che sembrano le tracce di un pasto, Celestine potrebbe essere stata uccisa (e mangiata) dal marito Aristide, che intanto è scomparso. Qualcuno sostiene che fosse malata di cancro, e che l’omicidio sia stato un atto d’amore. Il cancro, e alcune bizzarre tecniche di operarlo/curarlo, è l’oggetto della storia cui, in viaggio verso Budapest, sta lavorando Nathan, collega e fidanzato, di Naomi, anche lui sulla trentina, ambizioso e competitivo. Degli Arosteguy, Naomi a Nathan condividono la promiscuità sessuale, e il gusto per il mind fuck, anche se il loro – giovani americani in gran tour europeo, come in un libro di Henry James – è molto più terra terra.
La pista sulle tracce di Aristide Arosteguy porta Naomi a Tokyo. Mentre Nathan rientra a Toronto per incontrare il dottore che ha scoperto la malattia venerea: a infettarlo è stata una bellissima slava in punto di morte. A un certo punto le due storie si intrecciano e diventano una sola, complici un paio di intraprendenti allievi degli Arosteguy, Hervé Blomqvist e Chase Roiphe. Fittissimo di digressioni e colpi di scena, punteggiato dalle apparizioni di personaggi che sembrano usciti da Kafka (una ginecologa vietnamita, l’ispettore di polizia parigino, l’esperta di protesi acustiche Elke, lo scomparso regista d’avanguardia francese Romme Vertegaal…), Divorati rimanda continuamente ai luoghi e alle ossessioni della filmografia di Cronenberg. Dalle cliniche in cui si coltivano malattie misteriose (già in Crimes of the Future, del 1970), alle passioni entomologiche (La mosca, eXistenZ, Il pasto nudo), dalle protesi sessuali più strane (Inseparabili) all’erotismo dell’intelletto (A Dangerous Method). È un libro a cavallo tra satira e feuilleton, in cui l’ambizione politico filosofica dell’horror cronenberghiano emerge in primo piano dalle maglie del genere. A volte, persino troppo.
Oltre alla sua fantastica qualità visiva – vividissima, come quella dei film, e che richiede analoghi aggiustamenti dell’occhio – le pagine più belle sembrano, infatti, non quelle «colte», ma quelle scritte più di getto, quasi come slanci di un monologo interiore. Si pensi alla descrizione di come Naomi scopre la progressiva attrazione erotica di Nathan per Chase, nell’uso di diversi obiettivi della macchina con cui l’ha fotografata; ai passaggi dedicati al cambiamento del sesso tra due persone che si amano molto in vecchiaia… O all’immagine di una ciocca di capelli umidi e grigiastri scomposti sul volto di Celestine, «come la gamba pelosa di un ragno che le usciva dalla bocca» .