Ma l’amministratore delegato della Rai deve rispondere come portavoce di una società che deve produrre profitto, o piuttosto come garante di un servizio pubblico che, almeno sulla carta, dovrebbe rappresentare il complemento della pubblica istruzione? La natura ibrida della Rai, sospesa tra una funzione educativa finanziata dal canone e una funzione produttiva/espansiva, finanziata dalla pubblicità, è una matrice di continui equivoci e compromessi. Il motivo è semplice.

Siamo in un’epoca di transizione, tra una concezione europea dello stato come stato sociale, ad una concezione liberista di stato minimo. Conserviamo le strutture portanti dello stato sociale, compresa quella costituzione che dovremmo cambiare ad ottobre. Queste strutture contrastano con il concetto liberista di riforme. E in un momento di transizione, quando ancora il progetto di riforma non è arrivato al suo compimento (per fortuna) questa concezione ibrida non può che creare confusione e destare scandalo. Perché la Rai deve osservare due logiche divergenti e non sovrapponibili.

Esistono due modelli Rai uno pubblico e uno privato. Per il modello privato, oggi prevalente a livello di consensi da parte dell’opinione pubblica e della stampa, il risparmio non è necessariamente l’obiettivo primario. L’idea liberista di stato minimo e di tassazione minima ha fatto si che anche le strutture con vocazione sociale (sanità, scuola e servizio pubblico televisivo) siano gestite come aziende. L’imperativo riguardo a realtà non produttive di profitti come queste, diventa quello del pareggio di bilancio. In quest’ottica il risparmio è tutto e l’eliminazione degli sprechi fondamentale.

Ma questo modello non è applicabile alle aziende che devono crescere, competere e mantenere il mercato. E allora mettiamola cosi. Se per il concetto di servizio pubblico gli stipendi rivelati dall’operazione trasparenza dall’azienda risultano esorbitanti, per un progetto di Rai competitiva, quelli stessi stipendi sono nella norma. Un mio amico, dirigente di una multinazionale, li ha definiti «stipendi da fame».

Ora, è paradossale che io, che non percepisco stipendio e credo addirittura che gli stipendi vadano commisurati alle necessità obiettive dei lavoratori, anziché alle logiche di mercato, mi trovi qui a difendere queste retribuzioni.

Ma non ci sono vie di mezzo. O crediamo nel mercato ed allora dobbiamo rilanciare anche le aziende pubbliche a partire dagli stipendi, dei manager, o crediamo nel socialismo ed allora è aberrante che ci sia una forbice cosi ampia tra dirigenza e retribuzioni dei lavoratori di base. Però è logicamente inaccettabile che chi parla dal lato dell’economia liberista, faccia le pulci alle retribuzioni imposte dal mercato. Se l’azienda deve guadagnare, l’importante è che lo faccia, indipendentemente dei costi che servono per rilanciarla. Queste retribuzioni per me possono essere moralmente ingiuste da un punto di vista di equità sociale, ma sono il segno di una logica di mercato che si è progressivamente sostituita alla logica solidale e, in quanto tali, sono criticabili da sinistra e non da destra.

C’è un libro che è alle origini di tutti i discorsi sullo spreco come unico male del Paese. Mi riferisco a La casta di Stella e Rizzo. Libri come questo, che per altro ha conosciuto un meritato successo, suggeriscono che, se il mondo non funziona, ciò e dovuto alla casta e al malaffare. Ed in effetti, se partiamo da un concetto di pensiero unico per cui la mano invisibile del mercato crea comunque la maggior ricchezza possibile, la crisi economica non può essere imputata ai fondamenti, dell’economia, ma alla colpa dei singoli.

Però questa stessa platea popolare a cui la stampa benpensante si rivolge per additare i privilegi della casta, non trova scandaloso che i giocatori di calcio siano retribuiti milioni o che Marchionne guadagni centinaia di volte più di un operaio. Ed arriviamo al nocciolo. Lo scandalo sta negli stipendi pubblici pagati con soldi pubblici. Ma proviamo a vedere le cose come stanno. La Rai ha oramai ben poco del servizio pubblico. E chi ha imposto questa Rai industriale, deve anche accettare che funzioni. Il fatto che formalmente sia pubblica e raccolga un canone non deve ingannare. Il suo più prevedibile futuro è la privatizzazione e proprio in vista di questa privatizzazione è necessario un rilancio.

Secondo le direttive europee nella Rai sopravvive un servizio pubblico che andrebbe maggiormente evidenziato e che deve finanziarsi col canone. C’è poi un’azienda commerciale che, come tutte le aziende pubbliche senza vocazione culturale ( Eni, Posta e Ferrovia ) deve produrre profitti. Per la Rai suona strano, ma vorrei ricordare che oggi la comunicazione e l’immaginario rappresentano le industrie più promettenti. Il futuro produttivo non è certo in chiave di prima rivoluzione industriale, non riguardano automobili ne ferrovia, ma piuttosto la sfera dell’immateriale. Oggi fiction, media e comunicazione sono il mercato.

Giorgia Meloni ha detto che la retribuzione dell’Ad è pari ad un numero altissimo di volte l’odiatissimo canone Rai pagato da tutti noi. Basta dire che il direttore generale è pagato dalle entrate della pubblicità, per azzerare lo scandalo. Che poi la retribuzione del direttore e della dirigenza siano troppo alte rispetto agli stipendi di base, questo è moralmente ingiusto. Ma si tratta di un discorso che esce completamente dalla logica corrente.

* L’autore è consigliere di amministrazione della Rai