Un’enorme striscia colorata al chilometro 18 della via Casilina e Roma non è più la stessa. Perché i simboli, a volte, diventano importanti. Specie se sono capaci di interpretare un mondo e abbattere steccati, violare regole apparentemente immutabili e rompere tabù. Quella striscia è un’opera d’arte: è il primo murale antimafia della Capitale, nato alla Collina della Pace, il parco pubblico all’estrema periferia est della città appartenuto a Enrico Nicoletti, il cassiere della Banda della Magliana.

Un segno tangibile e indelebile di denuncia, di nuova consapevolezza e di trasformazione che l’Associazione daSud ha voluto – e l’artista David Diavù Vecchiato ha realizzato – per mostrare quello che a Roma quasi non si può dire: che la Capitale è una città di mafie. «Lo sanno anche i muri», sostiene provocatoriamente daSud nella scelta del titolo della festa di inaugurazione (il 4 luglio). Nessuno però è davvero disposto ad ammetterlo. Come se la realtà non fosse lì da trent’anni a scorrere implacabile davanti agli occhi dei romani. Come se la Collina della Pace non fosse essa stessa simbolo di prevaricazione e abbandono, di libertà e cambiamento.

Una storia accidentata

Una storia lunga e accidentata. Inizia nell’aprile del 2001 quando la parrocchia della Borgata Finocchio apre le porte a un attesissimo incontro tra i cittadini e l’allora assessore alle Periferie di Roma Luigi Nieri, il primo a credere nella rinascita di quel posto: si avvia una progettazione partecipata per un’area da 13mila metri quadri sulla quale l’ex boss Nicoletti ha costruito un palazzo abusivo di sei piani per destinarlo ad albergo e che qualcuno già pensa di trasformare in centro commerciale.

Un anno dopo i determinatissimi cittadini dell’ex comitato di quartiere «Casilina 18», oggi «Associazione Collina della Pace», lanciano l’idea di «Centro culturale polivalente». Bisogna però aspettare per vedere i primi risultati: soltanto a maggio 2004 l’ecomostro cade sotto i colpi delle ruspe e solo a dicembre 2007 arriva l’inaugurazione del parco e, alla presenza di don Luigi Ciotti, la dedica a Peppino Impastato. La strada sembra tracciata e il «centro culturale» vicino, ma è il percorso sarà pieno di inciampi e tentati blitz per cambiare destinazione d’uso. Nel 2011 apre finalmente il cantiere del centro culturale. La svolta però è soltanto dello scorso febbraio quando, su all’input dell’assessore alle Periferie Paolo Masini, ripartono i lavori che dovranno terminare tra pochi mesi.

Una storia che arriva fino a oggi, con la Collina della Pace che diventa scenario del primo murale antimafia di Roma – che abbiamo chiamato #mammamafia – e si impone come il simbolo della città contemporanea e delle sue contraddizioni. Le mani bianche e nere che si alternano lungo i venti metri di disegno, l’ecomostro e le sale slot, i cortei per i diritti e i simboli di cultura sono stati scelti da Diavù per rappresentare la storia emblematica di un luogo e al contempo la tensione quasi elettrica che tiene insieme il chiaroscuro della città. Sono colori e tratti che vogliono rappresentare un’antimafia sociale che punta a misurarsi con le trasformazioni del presente.

Il welfare parallelo

Roma, dopo decenni, ha finalmente avuto una condanna – a giugno, per il primo troncone dell’inchiesta «Nuova Alba» su Ostia – per associazione mafiosa. Un risultato importante, che tuttavia sottolinea il ritardo storico della città. Perché Roma conosce – e rimuove – il tema delle mafie da decenni, è stata il teatro delle imprese di personaggi come Carmine Fasciani e Michele Senese o di terroristi neri in combutta con mafiosi, ha subito lo strapotere della Banda della Magliana. Non solo. Ha accettato l’arrivo delle mafie che, con i soldi della droga, hanno comprato pezzi interi di città, modificato il modo di fare affari o trovare un lavoro, inquinato la concorrenza e mutato la stessa idea di sicurezza. E di fronte all’arretrare dello Stato hanno costruito un sistema per dare lavoro, stipendi e assistenza ai cittadini o per assicurare vigilanza e credito alle imprese, moneta sonante ai professionisti, persino per assegnare le case popolari. «C’è un welfare parallelo a Roma, e lo pagano i clan. Con la violenza agitata o praticata. Con un consenso costruito imponendo la propria presenza o regalando il pane ai bisognosi», è scritto nel dossier di daSud «MammaMafia – il welfare te lo paghiamo noi» (in uscita per Terrelibere.org) che ha dato il nome all’edizione 2014 della Lunga Marcia della Memoria.
Di fronte a questa realtà, non sono state all’altezza la classe dirigente diffusa e cittadini. Per incapacità, a volte convenienza. Ma anche l’antimafia ha segnato il passo perché sconta analisi, parole d’ordine e riferimenti culturali logori. E troppa timidezza nell’azione, relazioni spesso inopportune.

Ecco allora la necessità di riprendere parola, con rigore e originalità, di progettare un racconto nuovo, percorrere strade inedite. Il movimento deve pensarsi come popolare, portare sul terreno dell’antimafia chi non c’è, praticare i diritti sociali e civili (l’altra faccia della medaglia delle mafie). Tutti devono sentire il diritto, oltre che il dovere, di partecipare e costruire un nuovo modello culturale, strumenti per la buona amministrazione, più opportunità e giustizia sociale, un efficace welfare di prossimità, reddito.

Di tutto questo (in embrione, certo) vuole parlare l’esperienza del murale della Collina, che raccoglie il testimone di un altro murale, che a Gioiosa Ionica, in Calabria, ricorda il mugnaio Rocco Gatto, il primo testimone di giustizia calabrese e che daSud e il centro don Milani hanno restaurato nel 2008. Il murale è un lavoro collettivo, che può esistere soltanto grazie alla passione degli abitanti del quartiere che si battono per il loro parco, per il contributo di un artista come Diavù che, anche come coordinatore del Muro (Museo Urban di Roma), sta trasformando il volto dei quartieri romani, per la collaborazione della buona politica se su questa storia metterà impegno, cura e risorse. Solo così giorno dopo giorno si potranno superare resistenze, timidezze, ostilità e pregiudizi. Come quelli di un preside che per spiegare perché non si poteva realizzare un murale antimafia nel cortile della sua scuola ha rivendicato il diritto per un consiglio d’istituto di «decidere di non fare un murale antimafia». Giusto, eppure sbagliato.

In città è un tabù

Nella città in cui parlare di mafia è un tabù, allora il piccolo gesto di murale può servire a pronunciare parole proibite, a costruire un immaginario nuovo e diverso, a favorire il cambiamento. Un’esagerazione? Forse. Eppure cultura e creatività sono strumenti preziosi. E concreti, soprattutto se si saprà affrontare la ricerca di un’estetica dell’antimafia, che daSud ha aperto alcuni anni fa. Lavorare a buoni prodotti artistici, scavare con curiosità nella realtà, coinvolgere le creatività e le intelligenze migliori, imparare a stare sul merfcato della comunicazione e della cultura è un’ambizione che l’antimafia deve avere. Perché serve a raggiungere, e coinvolgere, più persone, a incontrare nuove energie, a promuovere la cura della bellezza e la partecipazione civile. L’antimafia è tale solo se non resta un luogo dell’agire politico o dell’impegno sociale, ma un prerequisito dell’agire pubblico, un punto di osservazione della società. Solo così l’omicidio di un broker come Silvio Fanella, il cassiere di Gennaro Mokbel, non sarà più un semplice fatto di sangue, ma un tassello – l’ultimo in ordine di tempo – di un mosaico criminale complesso e ancora da indagare. Che non riguarda solo i magistrati, ma il corpo sociale e vivo di una città, di un Paese.

* Associazione daSud