«Fuck Nigeria» c’è scritto sul muro intonacato di bianco della casetta circondata da sbarre. Qui ci vivono – si fa per dire – le nigeriane, qualcuna delle quali non deve avere proprio un bel ricordo del suo paese. Sono 23, la maggioranza delle 40 donne richiuse l’ultimo giorno dell’anno nel Cie romano di Ponte Galeria. Dopo la rivolta dell’11 dicembre scorso, quando la sezione maschile venne data alle fiamme, i 79 uomini presenti sono stati tutti trasferiti. Restano quindi solo loro, le donne, a popolare insieme a poliziotti e operatori la struttura alla periferia della capitale.

Oltre alle nigeriane si conta qualche signora sudamericana, una donna cinese che dice di avere ottenuto la status di rifugiata in Francia (e per la quale sono in corso accertamenti) e qualcuna proveniente dai paesi balcanici e dall’Egitto. Vite sospese in attesa di conoscere il proprio destino, di essere identificate e, nel caso, rimpatriate. Un’attesa che stando alla legge può durare fino a 90 giorni ma che – sulla base di quanto previsto da due direttive europee recentemente recepite dall’Italia – può prolungarsi fino a 12 mesi nel caso dal Cie venga fatta una richiesta di asilo da qualcuno ritenuto per vari motivi socialmente pericoloso dalla questura.

Molte delle donne oggi presenti a Ponte Galeria sono qui per aver ricevuto un decreto di respingimento dopo essere sbarcate. I respingimenti sono la novità del 2015 che si è appena chiuso. Provvedimenti emessi nei nuovi hot spot imposti dall’Unione europea a Grecia e Italia in cambio della promessa, finora non mantenuta, di ricollocare tra gli stati membri qualche decina di migliaia di richiedenti asilo. Finora quelli operativi sono due (a Lampedusa e Trapani) sui sei che l’Italia si è impegnata ad aprire. Molto probabilmente le 23 nigeriane che si trovano a Ponte Galeria sono vittime della tratta e come tali potrebbero ottenere presto la protezione internazionale. Nel frattempo però restano chiuse in gabbia a Ponte Galeria, tra i panni stesi ad asciugare tra le sbarre.

«L’unica cosa che possiamo fare per voi è portare un po’ di conforto, farvi sentire che non siete sole», spiega a tutte il presidente della commissione Diritti umani del Senato, Luigi Manconi. Insieme alla deputata di Sinistra italiana Monica Gregori, al segretario dei Radicali Roma Alessandro Capriccioli e al segretario dei Radicali italiani Riccardo Magi (possibile futuro candidato alla poltrona di sindaco della capitale), Manconi ha compiuto una visita-ispezione al Cie romano per verificare le condizioni in cui si trova chi è costretto suo malgrado a vivere in questi «non luoghi», come usa definirli il senatore del Pd.
C’è stato un momento in cui si è pensato che i Cie potessero essere un’esperienza finalmente lasciata alle spalle. A settembre scorso quelli ancora aperti erano solo cinque: oltre a Ponte Galeria, c’erano quelli di Bari, Trapani, Caltanissetta e Torino. Poi, secondo quanto previsto dalla road map inviata dal governo italiano alla Commissione europea, sono stati riaperti quelli di Crotone, Brindisi e Gradisca e presto riaprirà i battenti anche quello di Milano.

«La tranquillità è importante, ma la libertà è tutto» ha scritto un’altra mano anonima sui muri del Cie di Ponte Galeria. Sembra banale, ma qui dentro niente è scontato. Anche perché è davvero difficile capire la logica che ha portato alla creazione di luoghi che, pur non essendolo, sembrano in tutto e per tutto delle prigioni. Luoghi dove puoi anche trovare storie come quella di Fatima, 34 anni. Rom originaria della Bosnia. Arrivò in Italia all’inizio degli anni ’90 in fuga dalla guerra che stava devastando l’ex Jugoslavia. Da allora vive qui, ha avuto quattro figli, il più piccolo ha undici mesi il più grande 14 anni, ma al contrario di loro non è mai riuscita ad avere un documento di identità. Motivo per il quale è richiusa a Ponte Galeria.

«I Cie e la detenzione amministrativa si sono dimostrati in questi anni strumenti inefficaci, utili solamente a provocare sofferenza e precarietà», commentano i radicali Magi e Capriccioli all’uscita dal Cie romano. «Siamo sicuri che il destino del nostro paese debba essere quello di aprire nuovi centri di identificazione ed espulsione per trattenere e rimpatriare quanti fuggono dalla miseria in cerca di un’opportunità di vita?».