«I miei 9 caproni valgono 18.000 dollari, non 6 milioni!». Quando la avvertiamo che le sue capre da cashmere sono diventate il simbolo degli sprechi del Pentagono in Afghanistan, Nora Kravis prima è incredula, «è allucinante» dice, poi fa mente locale, «in effetti ho visto tante spese inutili», alla fine ammette: «C’era gente che rubava a destra e a manca». I suoi caproni da riproduzione sono finiti su tutti gli organi di stampa degli Stati uniti. Qualcuno se ne è accorto anche in Europa.

Il manifesto è riuscito a rintracciare la proprietaria, e a ricostruire tutta la storia: inizia nel Chianti, passa per il Colorado e arriva nei sobborghi di Herat, nell’Afghanistan occidentale. Prima di finire al Senato degli Usa, a Washington.

Il 20 gennaio John Sopko, responsabile del Sigar – lo Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction, agenzia del Congresso che monitora la ricostruzione in Afghanistan – ha testimoniato di fronte al Senato. Ha elencato tutti gli abusi, gli sperperi e le frodi legati alle attività condotte nel paese centro-asiatico dalla Task Force for Business and Stability Operations (Tfsbo).

Creata dal Pentagono nel 2005 per rivitalizzare l’economia irachena dopo l’invasione americana, nel 2010 ha cominciato a operare anche in Afghanistan, fino alla chiusura, nel marzo 2015. In cinque anni di attività, ha potuto disporre di 822,85 milioni di dollari (758,79 effettivi). Missione: ripristinare la capacità produttiva dell’economia afghana, servendo da catalizzatore di investimenti privati, soprattutto internazionali.

Progetti un po’ troppo diversi

I progetti realizzati sono diversi, troppo diversi, ha sostenuto John Sopko, «dall’importazione di rare capre chiare italiane per favorire l’industria del cashmere a Herat alla rimozione delle mine, dalla ricerca sul bio-combustibile al finanziamento di progetti su larga scala per sostenere lo sviluppo delle industrie estrattive». I risultati, pessimi. I costi, sproporzionati, come dimostra il progetto sul cashmere afghano, costato ai contribuenti americani più di 6 milioni di dollari.
«Nel 2012 sono stata contattata dagli uomini del Pentagono, e poi dalla Colorado State University», spiega a il manifesto Nora Kravis, newyorchese residente in Italia dal 1972, fondatrice dell’Azienda agricola La Penisola, al cui interno si trova l’allevamento Chianti Cashmere, «l’unico centro di riproduzione e selezione genetica della capra cashmere italiana».

È da qui, nella campagna tra Firenze e Siena, che nel 2013 sono partiti 9 caproni da riproduzione. Destinazione Herat. Obiettivo, «rilanciare l’economia della produzione di cashmere afghano, facendo accoppiare le capre locali con i maschi selezionati del Chianti».

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Le capre del Chianti a Herat

L’Afghanistan è il terzo produttore di cashmere al mondo, dopo Cina e Mongolia, che controllano il 90% del mercato. Nel paese ci sono 7 milioni di capre, il 95% delle quali produce lana cashmere. Ma ci sono due problemi: soltanto un terzo viene usata, e non è di qualità pregiata, perché scura, mentre i mercati internazionali cercano cashmere chiaro, con fibre lunghe e forti, che possano essere tinte.

«Il problema dell’economia afghana del cashmere è la mancanza di competenze, nella selezione genetica, nella raccolta, nella lavorazione e trasformazione delle fibre», spiega Nora Kravis. «Per questo, oltre al trasferimento dei caproni dalla lana chiara e al miglioramento genetico, cose di cui mi sono occupata io, il progetto prevedeva la creazione di strutture che realizzassero un prodotto finito o semilavorato».

Certificazione delle fibre

Il contratto di Nora Kravis, firmato nel dicembre 2012, prevedeva due anni di lavoro, in collaborazione con il Colorado State University’s College of Agricultural Sciences, guidato dal professor Ajay Jha, direttore del Cashmere Enterprise, progetto finalizzato alla creazione a Herat di un allevamento e di un laboratorio per la certificazione delle fibre. Secondo alcune fonti, il College del professor Ajay Jha avrebbe ottenuto un contratto da 1,5 milioni di dollari con il Dipartimento della Difesa Usa. Il compenso previsto per Nora Kravis era invece di 62.000 dollari, spiega la proprietaria dell’Azienda agricola La penisola. Ventimila per 10 caproni (poi diventati 9, «ed escluse le spese mediche, per vaccinazioni e altro»), il resto per l’attività di consulenza in Afghanistan.

«Ci sono stata 4 volte – racconta -. La prima per accompagnare le mie capre, poi altre tre volte. Ho tenuto lezioni, lavorato nelle stalle con i veterinari e gli allevatori locali, trasferito il know-how. L’idea era di fare in modo che gli afghani riuscissero a cavarsela da soli, dall’inizio alla fine». La stalla e l’allevamento, racconta, «erano di buon livello. L’ultima volta che sono stata a Herat stavano costruendo anche il laboratorio per l’analisi e la certificazione delle fibre».

Alcuni macchinari sono partiti dall’Italia, da Raffa di Puegnago, nei dintorni di Brescia, dai depositi dell’azienda Mesdan. «Abbiamo venduto un set di strumenti per la realizzazione di un piccolo laboratorio nei pressi di Herat», conferma al manifesto Claudio Bertolotti, responsabile commerciale dell’azienda. «Si tratta di strumenti per valutare e certificare la qualità delle fibre, la lunghezza, la forza e la resistenza». Una fornitura «da 100.000 dollari circa». Quanto al laboratorio e alla stalla, Bertolotti non saprebbe dire se siano ancora funzionanti o meno. «Non abbiamo più saputo nulla da un anno a questa parte».

Sul lungo termine funziona

«Lo stabilimento funziona 24 su 24, 6 giorni a settimana», ci spiega David Lee, direttore della Cashmere Fibres International Limited, azienda che – come ricostruito dal manifesto – ha fornito altri macchinari. «È vero, abbiamo fornito una dehairing falicity», macchinari per separare la fibra dal pelo delle capre, conferma via e-mail da Herat. «Lo stabilimento è in funzione da quasi due anni, e stiamo lavorando per raddoppiare la produzione», ora passata nelle mani del gruppo agroalimentare afghano Noor.

Secondo il direttore della Cashmere Fibres Internazional – azionista e fornitrice anche dell’impresa sociale Qaria, che insegna alle donne afghane a filare e lavorare a mano il cashmere per il mercato internazionale – lo stabilimento di Herat «garantisce un impiego diretto a circa 40 afghani, mentre indirettamente sostiene migliaia di poveri coltivatori e mandriani, fornendo loro uno sbocco per il loro cashmere grezzo».

Un progetto ambizioso, difficile, quello di sviluppare in Afghanistan un’industria di lavorazione e trasformazione del cashmere, sostiene David Lee, ma fruttuoso sul lungo termine.

Incompetenza e spese disinvolte

Sembra pensarla diversamente lo Special Inspector for Afghanistan Reconstruction John Sopko, che il 20 gennaio davanti ai senatori ha denunciato il divario tra i costi del progetto – 6 milioni di dollari – e gli scarsi risultati ottenuti fin qui. «Il progetto in sé non era male», commenta Nora Kravis, «ma è stato gestito male fin dall’inizio. L’orizzonte era di pochi anni, mentre in questo campo ne occorrono molti di più».

La ragione? Incompetenza, spese disinvolte «e perfino qualche truffa», aggiunge Kravis.

Sui componenti della Task Force, soprattutto su Benjamin Kolendar e Lee Sanderson, rispettivamente project manager e programme manager dell’equipe, sono piovute critiche pesanti. Si parla di spese folli, viaggi inutili, consulenti costosissimi (come i professionisti nelle pubbliche relazioni della multinazionale Bell Pottinger), conti estremamente elevati per spese di gestione, logistica e sicurezza del personale in Afghanistan: meno di 10 persone hanno speso 150 milioni di dollari, per ville spaziose, guardie di sicurezza, televisori al plasma, letti queen-size.

Nora Kravis avrebbe deciso di lasciare il progetto, di fronte a sprechi e incompetenza. «Il contratto sarebbe scaduto nel settembre 2014. Ho lasciato a febbraio. Non mi piaceva quel che vedevo. Ho denunciato ciò che ho visto, a Washington, al Dipartimento della Difesa». Per questo, ha ricevuto soltanto metà del compenso previsto. «Per i caproni, 10.000 dollari. Per arrivare a 6 milioni ce ne vuole!», chiosa prima di tornare dalle sue capre da cashmere, nella campagna toscana del Chianti.