Il Venezuela si mobilita contro il decreto Obama,che ha rinnovato per un altro anno le sanzioni contro il paese socialista, definito “una minaccia inusuale e straordinaria per la sicurezza degli Stati uniti e della sua politica estera”.
Ieri, migliaia di persone sono scese in piazza e le manifestazioni proseguiranno fino a martedi in tutto il paese.
Dimostrazioni analoghe si stanno svolgendo in tutto il continente, unito nella difesa delle conquiste realizzate durante il ciclo progressista, inaugurato dall’elezione di Chavez in Venezuela, nel 1998.
“Siamo una speranza, non una minaccia”, dicevano ieri i cartelli, riprendendo la campagna che, lo scorso aprile, al summit delle Americhe che si è tenuto a Panama, ha presentato a Obama oltre 14 milioni di firme contro il decreto.
In quella sede, il presidente Usa si è trovato di fronte l’opposizione di tutti i paesi latinoamericani e caraibici, che hanno rispedito al mittente il tentativo di isolare Caracas e di spezzare le nuove alleanze sud-sud facendo mostra di voler “salvare” la Cuba “aperturista”.
Sembrava, allora, di essere tornati indietro a 10 anni prima, a Mar del Plata, quando Hugo Chavez aveva osato gridare a Bush che l’Alca – l’Accordo di libero commercio per le Americhe – in discussione allora,avrebbe anche “potuto metterselo…”, perché da lì non sarebbe passato.
Dietro le quinte, però, le acque erano più agitate, sospinte dall’onda conservatrice che avrebbe scompaginato gli equilibri in due paesi-chiave della regione: in Argentina, con la vittoria (seppur di misura) dell’imprenditore Macri, e in Venezuela, dove le destre hanno conquistato un’ampia maggioranza parlamentare.

Alla firma dello storico accordo Transpacifico, realizzato dagli Usa anche con alcuni paesi cardine del Latinoamerica (Messico, Cile, Perù), nel proliferare di patti incrociati coi singoli paesi progressisti portati avanti dall’Unione europea – che spinge per realizzare il Ttip -, le cose sono molto più complicate. Ora, il primo nemico da battere, nel continente latinoamericano, è il Venezuela chavista, che custodisce le più grandi riserve di petrolio al mondo e le seconde in oro, e che dedica – pur con tutti i suoi problemi – oltre il 60% delle entrate ai programmi sociali.

Per questo, si torna a premere su Cuba, sperando che la possibilità di nuovi contratti commerciali con Eu e Usa ridimensioni l’Accordo integrale di cooperazione, in corso dal 2000 con il Venezuela in una vasta gamma di settori, soprattutto quello energetico.
Ma, ieri, Raul Castro ha voluto lanciare un messaggio chiaro: mentre veniva stipulato l’accordo con l’Europa, ha ricevuto all’Avana la ministra degli Esteri venezuelana, Delcy Rodriguez, per rinnovare quello bilaterale con Caracas e rafforzare le relazioni privilegiate fra i due paesi.
Castro ha ribadito il rifiuto al decreto Obama, e ha espresso “l’incondizionato appoggio del popolo cubano a quello venezuelano e al governo di Nicolas Maduro”.
Ha anche rinnovato il suo sostegno all’unione civico-militare (l’alleanza tra le forze armate bolivariane e il governo), che caratterizza lo stato venezuelano. Un’alleanza – hanno sottolineato gli altri presidenti progressisti della regione – che agisce non per aggredire, ma “per mantenere la pace, l’ordine costituzionale e le conquiste della rivoluzione bolivariana”.
Cuba è uno dei 120 paesi che si sono pronunciati contro il rinnovo del decreto Obama. Già all’inizio di questo mese, Castro aveva chiesto l’eliminazione dell’Ordine esecutivo 13692,decretato dagli Usa nel 2015, mettendo in luce come il Venezuela abbia favorito sicurezza e benessere per i settori e i popoli meno favoriti e che il suo esercito, impiegato a questi fini e non a quelli d’aggressione, non può certo rappresentare una minaccia per quello Usa, considerato il più potente del pianeta.
Contro il decreto, oltre ai paesi dell’Alba, si è espresso anche l’arco dei Paesi non Allineati.
Rodriguez e Castro hanno poi parlato dell’agenda regionale, in un momento in cui l’attacco delle forze conservatrici si fa più aggressivo e cerca di scardinare le alleanze sud-sud, staccando o cooptandone singoli componenti. La visita di Obama – prima a Cuba, il 20 marzo e poi in Argentina -, è parte di una road map che mira a ripristinare il controllo politico nella regione e a spianare la strada alla ratifica (nei singoli parlamenti) degli accordi realizzati con il Tpp, includendo quei paesi che, nel continente, aspirano (come l’Argentina) a seguire la strada di Messico, Cile e Perù.
L’agenda di Washington viaggia in parallelo a quella delle destre venezuelane, che in questi giorni hanno stabilito un loro iter per cacciare il presidente Maduro prima che finisca il mandato.
Ma il parlamento è solo uno dei cinque poteri in equilibrio nella repubblica (presidenziale) bolivariana: occorre, quindi, far cadere il governo. La costituzione prevede che tutte le cariche politiche possono essere revocate a metà mandato, previo referendum richiesto almeno dall’10% degli aventi diritto.
Per questo,l’arco di opposizione sta provando tutte le strade: la mobilitazione di piazza, opzione sostenuta soprattutto dall’estrema destra, che nel 2014 ha organizzato le proteste violente con la campagna “la salida” (l’uscita, la partenza), provocando 43 morti e oltre 800 feriti; un emendamento alla costituzione per ridurre la durata del mandato presidenziale e quello dei giudici del Tribunal Supremo de Justicia (Tsj), ago della bilancia nei cinque poteri esistenti; e la raccolta di firme per il referendum revocatorio.
Intanto, le destre tentano nuovamente di favorire l’intervento esterno in Venezuela, prendendo a pretesto la scomparsa di un gruppo di minatori (tra i 16 e i 28), denunciata alla frontiera con il Brasile, dove le bande paramilitari tentano di aprire e controllare le miniere illegali.
Il fatto sarebbe avvenuto a Tumeremo, nello stato di Bolivar. Le autorità hanno diffuso un bando di ricerca nei confronti di Jamilton Suarez, detto El Topo, un individuo che avrebbe fatto parte delle disciolte bande paramilitari colombiane Autodefensas Unidas de Colombia, che poi hanno dilagato in Venezuela.