Due giorni prima dell’insediamento di Donald Trump e dopo mezzo secolo di rottura delle relazioni commerciali tra i due paesi, giungerà negli Usa il primo prodotto commerciale cubano: si tratta di 40 tonnellate di carbone vegetale, prodotto da cooperative dell’isola caraibica e acquistato da una società statunitense.

Nonostante prosegua il cinquantennale embargo una misura esecutiva decretata dal presidente Obama permette che cooperative e privati cubani – ma non aziende di Stato- possano esportare i loro prodotti negli States.

SI TRATTA DI UNA MISURA per «rafforzare» la società civile cubana e che si aggiunge all’altra messa in atto giovedì – quella di mettere fine ai balseros e più in generale all’immigrazione illegale cubana – in modo da rendere difficile al prossimo presidente innestare la marcia indietro nel processo di normalizzazione tra Usa e Cuba. Una o più cooperative venderanno il loro prodotto all’agenzia statale CubanExport la quale lo invierà alla società statunitense.

IL CARBONE SI PRODUCE nell’isola in forni artigianali con legno di marabú, un arbusto duro e spinoso che ha invaso migliaia di ettari di terre incolte dell’isola. E che fino a pochi anni fa rappresentava un mal di testa per i piccoli agricoltori che avevano aderito al programma lanciato dal presidente Raúl Castro di dare in affidamento le terre incolte a chi si impegnasse a renderle produttive.

Oggi, la produzione di carbon fossile di marabú è una piccola, ma interessante nicchia produttiva cubana. In primis, perché la materia prima è gratis e in abbondanza, poi perché nell’isola esiste una produzione artigianale di carbon fossile da parte dei carboneros, lavoratori poverissimi e sfruttati al tempo della dittatura di Batista e che aderirono alla Rivoluzione. Oggi un produttore di carbon fossile guadagna circa 150 euro al mese, sei volte lo stipendio medio. Cuba vende circa 80.000 tonnellate di carbon fossile in gran parte esportati da una società spagnola (Ibecosol) in una diecina di paesi, soprattutto europei.

L’IMPRESA AMERICANA che ha acquistato il prodotto cubano è proprietà di Scott Gilbert, l’avvocato che aveva difeso il «contrattista» (della Cia) Alan Gross quando fu imprigionato a Cuba con l’accusa di spionaggio. Nonostante il volume di affari del carbonfossile sia modesto, esso può aprire la strada a alla vendita negli Stati uniti di altri prodotti, come caffé e miele, ha affermato la direttrice di CubaExport, Isabel O’Reilly.

Per Cuba è urgente iniziare a fare affari con gli Usa. Il suo maggior partner commerciale, il Venezuela, attraversa una profonda crisi politico-economica e ha dimezzato le forniture di greggio all’isola, contribuendo a far precipitare Cuba in una situazione di recessione nel 2016 (crescita ufficiale del 0,9 % rispetto alle previsioni del 2%) e per quest’anno non si individua altra via di uscita se non gli investimenti esteri. Per alzare il tasso di crescita ai livelli sperati del 4-5% occorrerebbero, secondo il ministro del commercio estero Malmierca, almeno 2,5 miliardi di dollari di investimenti. L’anno scorso, hanno sfiorato i 500 milioni.

Dunque ben al di sotto delle aspettative e delle potenzialità dell’isola. La zona speciale del porto di Mariel, uno dei maggiori poli di sviluppo progettati dal governo, in due anni ha autorizzato le proposte di investimento solo una dozzina di imprese straniere su più di cento richieste. Il tutto, per quello che il ministro ha giudicato «un eccesso di cautela» nell’esaminare i progetti presentati da firme straniere.

Tanto che è dovuto intervenire lo stesso Raúl Castro nella sessione di dicembre dell’Assemblea del potere popolare (parlamento). Il presidente ha messo in chiaro che il socialismo, se vuol essere «prospero e sostenibile», deve implicare un aumento delle capacità produttive. E dunque, ha affermato Raúl, «è necessario superare la mentalità obsoleta piena di pregiudizi contro gli investimenti esteri». Anche il contratto di vendita di carbone, che pur non supera i 17.000 dollari, è stato firmato, per la stampa cubana, «dopo un lungo tempo di negoziati».

LE DIFFICOLTÀ BUROCRATICHE – in sostanza politiche – gravano sullo sviluppo delle piccole imprese cubane gestite da privati (cuentapropistas). L’anno scorso si sono registrati 535.000 piccoli impresari (soprattutto nel settore della ristorazione e dell’affitto di camere per stranieri). Un documento del partito comunista aveva annunciato l’intenzione di dare forma giuridica alle piccole e medie imprese, in modo che potessero comprare e vendere da imprese statali o all’estero. Ma fino a oggi non si è fatto nulla. I cuentapropistas non hanno nemmeno un mercato all’ingrosso su cui contare e dunque si riforniscono nei normali supermercati, dove dunque la merce «sparisce» in fretta e per il comune cittadino diventa sempre più difficile trovare i prodotti di largo consumo di cui ha bisogno.