L’inizio d’anno, lontano dalla fretta quotidiana, invita a riflettere su alcune questioni fondanti del vivere civile. Così è per un tema «eticamente sensibile» come la salute delle persone private della libertà. Gli organismi internazionali, in specifico l’Organizzazione Mondiale della Sanità, da tempo attirano l’attenzione sul problema ribadendo il principio dell’uguaglianza del diritto alla salute per tutti i cittadini: si veda la dettagliata guida Health in Prisons del 2007. Sulla base dello stesso principio, il Comitato Nazionale di Bioetica, nel 2013, ha stilato un parere, «La salute dentro le mura», ricco anche di indicazioni operative (pdf qui).

Se l’idea non è più controversa, lo stesso non si può dire per la sua applicazione.

In Italia, il passaggio della sanità penitenziaria al Servizio Sanitario Nazionale ha rappresentato un passo avanti decisivo nella parità di trattamento, ma non ha sciolto tutti i nodi della gestione della salute: che risiedono nella tensione, e nel potenziale conflitto, fra istanze di sicurezza e diritti della persona. Un esempio è il rapporto col medico curante, che per i cittadini «fuori le mura» inizia con la libera scelta del professionista di fiducia. E per i cittadini «dentro le mura»? La scelta non è data e il rapporto col medico di fiducia (per chi l’aveva) quasi sempre si interrompe con l’ingresso in carcere.

Da segnalare nuove interessanti pratiche: come quella nel carcere di Massa, dove il detenuto ha la facoltà di scegliere il medico di riferimento fra i sanitari presenti nell’istituto. E’ un passo in avanti sulla giusta via. Anche se la libertà di scelta non riguarda solo la medicina generale in senso stretto: si pensi alla delicata funzione dei servizi delle dipendenze, a cavallo fra prestazioni di base e specialistiche.

Collegata alla libertà di scelta, è la questione del rapporto fiduciario del detenuto col sanitario, da tutelarsi a ogni costo.

Sempre la Oms evidenzia un conflitto di ruoli, quando il medico curante è chiamato a giudicare le condizioni di salute del detenuto in relazione a provvedimenti che deve prendere l’autorità giudiziaria o penitenziaria: si veda la situazione in cui il medico sia chiamato a pronunciarsi sulla incompatibilità del detenuto con lo stato carcerario. Per non incrinare la relazione terapeutica, si raccomanda che il giudizio sia demandato ad altro professionista.

Non è il solo caso di possibile conflitto di ruolo del sanitario, terapeutico da un lato, di supporto all’autorità giudiziaria dall’altro.

Si pensi all’accertamento dello stato di dipendenza, quando il procedimento diagnostico non è finalizzato alla scelta del trattamento più appropriato, bensì a permettere – o negare- l’accesso a misure alternative. Per i Servizi Dipendenze, il conflitto si è acuito nel 2011, quando il Dipartimento Nazionale Antidroga (Dpa) decise di «uniformare» le procedure diagnostiche al fine di distinguere i detenuti con problemi di droga, fra «assuntori» e «dipendenti». Molto ci sarebbe da dire sulla validità scientifica di tali categorie, specie dopo le novità introdotte dal Dsm V.

Per il momento, basti segnalare che in questo quadro la diagnosi non ha tanto valore clinico quanto di «classificazione» dei detenuti in relazione ai benefici giudiziari, facendo una prima cernita fra soggetti – abilitati e non – ad accedere a misure alternative terapeutiche. Si attiva così quella commistione di ruoli da cui si dovrebbe prendere le distanze. Di questo risvolto etico poco si è discusso ai tempi della decisione del Dpa. E’ tempo di colmare la lacuna, restituendogli il posto che gli spetta nel dibattito sul rinnovamento del carcere.