Fare della propria vita la propria opera è cosa complessa e meravigliosa, tanto più quando ciò assume il carattere di un taglio imprevisto al punto di divenire politica: è quanto accadde negli anni Settanta con il movimento femminista che mise al centro della sfera pubblica altre modalità di fare politica, è quanto mise a fuoco con lucida autonalisi Carla Lonzi, insieme al gruppo di «Rivolta femminile»: a Carla Lonzi Maria Luisa Boccia dedica un libro che non vuole costituire un ritorno alle origini del pensiero e delle pratiche femministe, ma un colloquiare con lei a partire dal presente (Con Carla Lonzi. La mia vita è la mia opera, Ediesse, pp. 149, euro 12).
Dalla critica d’arte militante, infatti, al nodo sessualità e politica, dall’ancora scandaloso «sputiamo su Hegel» alla donna clitoridea, al «taci anzi parla» del diario di una femminista, le questioni che Carla Lonzi affrontò nella sua scrittura sono tante e tali che ci si volge a lei oggi in cerca di elementi utili per trovare radicalità efficaci per questo presente in cerca di nominazione. Radicalità che sono anche radici di una crisi delle pratiche politiche: si potrebbe osservare che questo libro è rivolto al senso della fine di un’esperienza per ribadirne il continuo inizio. Maria Luisa Boccia volge infatti il proprio sguardo alla fine degli anni Settanta e con loro a Carla Lonzi per ribadire la radice prima della politica , che riguarda donne e uomini: lo aveva già fatto con il libro dedicato a Carla Lonzi nel 1990, L’io in rivolta (pubblicato da Tartaruga e riproposto dalla stessa casa editrice nel 2011 con una nuova prefazione), e il libro allora aveva il sapore tessuto e meditato di un ragionamento che anticipava questioni che sarebbero poi divenute nodali, come quello della critica alle forme dell’agire politico e quello dell’autocoscienza, su cui si torna in modo rinnovato come emerge dagli interventi dedicati a ciò dall’ultimo numero di Alfabeta, che la reinterroga attraverso la narrazione di Daniela Pellegrini. Più forte oggi la necessità di spezzare la complicità femminile con il potere, anche quando essa si palesa in termini di competenza e merito, parole molto usate nell’attuale dibattito pubblico senza che ciò faccia la differenza, anche quando si esprime sotto l’aspetto ingannevole dell’emancipazione.

Un disperante eterno presente

Centrale la tensione alla libertà e al come farla propria in un esercizio di pensiero e di esperienza che riesca ad avere un carattere simbolico efficace per questo presente: cosa niente affatto facile, se non si ripercorre come fa Maria Luisa Boccia, passo passo e con mano lieve ma assai ferma e determinata, quanto allora venuto alla luce con Carla Lonzi. Ovvero la necessità di mutare «vita in radice», insieme ad una pratica di scrittura come agire comunicativo, interrogazione e osservazione di sé e delle altre aperta all’interlocuzione sempre in divenire, forma essa stessa del pensare.
Il che significa qualcosa di diametralmente opposto all’astratto linguaggio pubblico, assertivo e predeterminato per come si presenta ancora attualmente in una sorta di eterno presente storico disperante, pure quando risulta vincente, tanto più quando apparentemente lo è. All’astrattezza del linguaggio politico si contrappone infatti, almeno superficialmente, una politica del fare che consegna nelle mani di uomini e donne dell’apparato politico istituzionale il fare della politica. Rispetto la soverchiante materialità delle vite di donne e uomini il fare diviene macchina di potere apparentemente neutra e oggettiva: che cosa contrapporre alla crisi, alla recessione, alla mancanza di lavoro? In realtà questi sono termini appartenenti a un ordine discorsivo intriso di quell’olocausto di sé di cui scrive Rosa Luxemburg in una lettera a Leo Jogiches, fatta propria poi efficacemente da Carla Lonzi nel corso della sua riflessione. Di fronte a un mercato capitalistico che in maniera sempre più selvaggia fa olocausto delle nostre vite, che cosa ci dicono Carla Lonzi e Maria Luisa Boccia che aiuti a trovare modi per vivere il presente utili per decostruirlo, cambiarlo, modificarlo in modo radicale?
Se il criterio principe del potere è quello dell’efficacia dei fatti – e l’attuale governo, come per altro quelli precedenti, si ammanta in continuazione di ciò – cosa opporre ad un principio apparentemente oggettivo e universale? La differenza femminile è taglio che smaschera innanzitutto l’universalità presunta e oggettiva proprio a partire dalla finitezza della singolarità di ognuno. Il discorso pubblico che agita l’oggettività dei fatti fa sì che ogni differenza diviene marginalità da soccorrere e quindi da contenere collocandola nel ruolo di vittima, ruolo che conferma l’astrattezza universale ed oggettiva del discorso pubblico invece che rimetterla in discussione. Scomporre l’identità sessuale come fa Carla Lonzi, in altri termini scomporre il genere invece di farne categoria superficialmente utile a ogni evenienza, permette di scardinare e di far venire alla luce l’atto di cura femminile, e anche maschile perché ormai attraversa tutti i generi e le generazioni, che sta supplendo in modo innominato alla mancanza di cura pubblica.

L’obbligo alla cura

Se infatti prendersi cura delle vite è atto propriamente femminile, occorre «ripulire lo spazio» – sono parole di Carla Lonzi – dall’atto di sacrificio di sé richiesto in modo non poi tanto implicito a donne e uomini in Italia come in Europa: rispetto a ciò varrà riprendere e discutere quanto scritto al proposito dal «Gruppo del mercoledì di Roma su un’altra Europa» della cura, quando osserva che pensare alla «cura» è una pratica che riapre il conflitto tra capitale e vita e che occorre svelare la dicotomia patriarcale tra il buon padre che si prende cura di tutta la famiglia e facendo ciò esercita potere e le donne il cui lavoro di cura diventa mero dato biologico. E come articolare ciò in un momento storico in cui la dicotomia patriarcale si rappresenta come uomini e donne di governo che esercitano potere sulle vite di tutti in nome del buon padre di famiglia e donne e uomini che si prendono cura della vita individuale in vario modo, senza che ciò diventi privatizzazione delle vite materiali? Maria Luisa Boccia osserva come «pensare e nominare, quindi praticare e vivere, altrimenti la realtà – è il primo, imprescindibile gesto di libertà. Si tratta insomma di andare non solo oltre i limiti di una condizione imposta alle donne, ma anche oltre i limiti di una società, di una cultura, di una storia dominate da uomini»: questo lo sguardo lucido, il taglio di Carla Lonzi e si può dire con certezza che a questo sono stati dedicati il pensiero e le riflessioni del femminismo della differenza, certo non essenzialista se non nella misura in cui la donna – volutamente singolare nella scrittura di Maria Luisa Boccia così come in quella di Lonzi – diviene figura simbolica di un esercizio conflittuale radicale che di fatto si è congedato da quanto ci ha portato fino a qui, ovvero il patriarcato, le sue leggi astratte, il suo potere, il suo dover essere, apparentemente oggettivo e indiscutibile.
Ancora intatto nella sua capacità di significare il presente quanto scritto a proposito del lavoro nel Manifesto di Rivolta femminile nel 1970: «Detestiamo i meccanismi della competitività e il ricatto che viene esercitato nel mondo dell’egemonia dell’efficienza. Noi vogliamo mettere la nostra capacità lavorativa a disposizione di una società che ne sia immunizzata. La parità di retribuzione è un nostro diritto, ma la nostra oppressione è un’altra cosa. Ci basta la parità salariale quando abbiamo già ore di lavoro domestico alle spalle? Riesaminiamo gli apporti creativi della donna alla comunità e sfatiamo il mito della sua laboriosità sussidiaria. Dare alto valore ai momenti “improduttivi” è un’estensione di vita proposta dalla donna». Sono termini che riescono con proprietà ancora oggi a ribaltare la forbice schiavistica del lavoro/non lavoro e che mettono al centro modi di pensare come stare al mondo e di pensarsi che scardinano i termini con cui si presenta la questione nell’opinione pubblica: cosa significa precarietà economica ed esistenziale per donne e uomini di tutte le età e come farne qualcosa di diverso dal ruolo della vittima o del marginale necessitante di pubblico soccorso, un’emergenza sociale si usa definirla?

L’ordine del potere

Cosa significa, alla luce delle parole del Manifesto di Rivolta femminile, essere in cassaintegrazione, i contratti di solidarietà, l’abbandono della forma identitaria del lavoro per donne e uomini? Altre le modalità di fare politica nell’esperienza femminista individuate e perseguite da allora, indubitabilmente diverse da quelle dei partiti e della rappresentanza: quelle che approfittano della differenza per farne atto creativo, per «coniugare principio di piacere e principio di realtà», osserva Maria Luisa Boccia, notando come in assenza di autorità il «potere può fare male, molto male, ma non fa ordine»: questo si è potuto notare in molteplici occasioni in questi anni e sta a noi fare ordine, per ripartire da un principio discorsivo desiderante che nell’emergenza della miseria materiale delle vite pare essersi smarrito. Ma vi è una forza che ha origine dal piacere delle relazioni che hanno vita nelle occupazioni delle case abbandonate, nelle proteste in difesa del posto del lavoro condivise, nella messa a tema di scacchi anche ragionati ma non rimossi, grazie alla quale è possibile non smarrire il senso d’un fare politica che è tutto nelle nostre mani e che dalla differenza femminile può trarre solo che guadagno e sostanza.