In una presentazione di una possibile mostra delle sue fantasie giovanili, disegni rivolti tutti ai miti del Mediterraneo, e tutti all’insegna delle facoltà esaltate da Plinio il Vecchio: acre ingenium, incredibile studium, summa vigilantia, Carlo Belli mescola Ippocrito, Fedra, Elena di Troia, Europa in groppa al toro, Apollo in apparizione, il Minotauro, ai fantasmi dechirichiani del periodo ferrarese, a Bach e a Strawinsky, a un progettato auditorium di Sabaudia, ai contrappunti di Melotti, alle linee toujours en danger de mort di Cocteau, agli artefici dei vasi a fondo bianco della ceramica attica. Qui il disegno diventa capace di sintesi impensate: la linea che lo regge, sensibile fin quasi ad annullarsi nello spazio, nasce dal nulla, vive su un filo che potrebbe essere la bava di un ragno, accentua a tratti se stessa con la intensità di un respiro appena necessaria a sopportare la irrilevante differenza con il tratto di prima, ritorna bava, si perde nello spazio.
In un viaggio a Matera del 1980, per la presentazione di Parigi 1937, il mare nostrum degli antichi romani, bizzarro, irrequieto e imprevedibile, nato solo venticinque milioni di anni fa ma con una storia fortemente intrecciata alle vicende dell’Homo Sapiens, torna più volte nei discorsi di Belli, archeologo itinerante a cui piace peragrare, andare – come Orsi e Maiuri – attraverso la campagna per ritrovare il rapporto dell’oggetto con l’uomo, quell’eternità che è in noi e dialoga con un mondo diverso, nascosto e armonioso dentro di noi: il Mediterraneo. Dice: «Il Mediterraneo ha modellato, e continua a farlo tuttora, la geografia dell’Italia. Pensa che la pianura destinata a ospitare Milano giaceva, dieci milioni di anni fa, a molte centinaia di metri di profondità, l’alto Adriatico era una immensa pianura che saldava l’Italia alle coste balcaniche, Sardegna e Corsica si erano staccate dalle coste spagnole. Nascita e crescita dei molti esseri umani dei diciotto paesi che si affacciano su questo mare, sono dovute al Mediterraneo, che è un universo unico colmo di aura, da rintracciare negli elementi più semplici della contemporaneità, nell’universalità propria di un mare che nel minimo segno conserva il massimo della forza, fino a farti pervenire all’essenza».
Quest’aura è la stessa che si coglie, ancora oggi, nei tramonti di Metaponto, aperta sul Mediterraneo: «Il cielo di Metaponto non s’incurva – scrive Belli –. Passa sulla pianura come una tavola azzurra e volante, diretta altrove. Passa continuamente, e lo si vede correre anche quando è perfettamente limpido, sgombro di nubi. Questa tavola azzurra in moto perenne è sopra di voi a circa duemila metri, non di più, ed è così veloce nel suo fluire che sembra ferma. Vi dico che non s’incurva. Guardate bene verso la cosiddetta ‘linea dell’orizzonte’, dove tutti i cieli del mondo scendono a cupola per incontrarsi con la terra: ebbene, questo di Metaponto non scende affatto, continua dritto verso una quarta dimensione, e là dovrebbe avvenire il suo amplesso celeste con la terra, lascia uno spiraglio, una fessura arcana dalla quale irrompono luci spettrali di provenienza certamente divina».
«Kn», Garbari, Melotti
Scandagliare, quindi, nella mediterraneità di Belli significa calarsi nelle sue radici più profonde, indicarne gli umori che hanno nutrito senza tregua l’immaginazione e l’energico e segreto guizzo della forma sollecitata dai sensi.
La lettura di KN e il lungo lavoro–confronto compiuto insieme a Garbari, Depero, Melotti, Licini, Fontana, Severini, Savinio e de Chirico, Picasso, Léger, Le Corbusier, Kandinsky bastano – da soli – a chiarire un tema che fu, per settant’anni, il richiamo dell’eterna adolescenza, la perenne ricerca dell’uomo perduto in cui i mediterranei si riconoscono come in uno specchio: nell’eccesso di spontaneità, nella costante tensione alla facilità del vivere, nel senso della naturalezza, nella nostalgia del magico. Proprio come gli arlecchini di Picasso nei quali Jung vide una furiosa corsa lungo i millenni dell’umanità dalla classicità dionisiaca.
Il Mediterraneo, in Belli, è recupero della costruzione di un’immagine con elementi naturali, senza per questo scivolare nella semplificazione espressiva, anzi mantenendone solidità e profondità secondo quei principi egizi che ne evidenzino con chiarezza le forme caratteristiche. È ritorno a forme familiari da rendere più tangibili per esplorare a fondo la rappresentazione superandone il paradosso sempre presente nella pittura di tutte le epoche. Scrive: «Fare un’opera d’arte che sia perfettamente inutile: questo conta. Inutile alle contingenze umane, ossia utile a se stessa. Quando ciò sarà, allora essa diventerà utile anche all’uomo. Infine: un’opera che elevi lo spirito umano appunto perché libera da ogni aspetto umano. L’assoluto non è né fuori né dentro di noi. Esso è. Il fatto che la natura sia dominata da leggi algebriche e geometriche, non vuol dire che tali leggi siano un fatto naturale! Esse esistono in sé, nonostante noi, essenza delle cose create, sostanza di quelle ancora non parventi. Studiasti mai Pitagora? Finché non cadrai in adorazione davanti alla geometria, non sarai mai un buon pittore, un buon musicista, un buon scultore, un buon architetto… Il contrappunto che occorre all’arte non riguarda la forma, ma la sostanza».
Il confronto con le civiltà che sul Mediterraneo si sono sviluppate implica nuove possibilità formali perché sollecita l’avventura con materiali più eterogenei, rovescia nell’astrattismo l’eredità elargita dagli scavi archeologici, sprigiona le abilità, scioglie l’intelligenza, trova nell’ambiente stesso il soggetto da cui partire per la ricerca di nuovi idoli senza tempo. Da ciò l’aspetto armonioso delle impaginazioni di Carlo Belli, delle composizioni testo-foto, e quell’impressione di ordine, di pulizia e di essenzialità derivata dal fatto di aver calcolato le giustezze e l’altezza della composizione in modo che il loro rapporto venga a costruire un rettangolo d’oro.
Tutto questo poteva portare al trauma di un dualismo classicismo-romanticismo, ma Belli lo scansa evidenziando la vocazione di fondo, quella classica, non intesa come luxe, calme e volupté o come mitologia ma come problema storico, impostazione dialettica fra i dialoghi di Platone e l’etica di Rosmini, la gioia di vivere di Matisse e le riflessioni di Le Corbusier, le audacie ritmiche di Strawinsky e i virtuosismi di Cocteau.
Agli inizi degli anni venti (le settantasette pagine di Le Coq et l’Arlequin erano uscite nel 1917), Jean Cocteau diventa l’agile dissolvitore di enti che avevano parvenza di realtà ed erano soltanto simboli. L’avvio verso la classicità crepitante, alla quale davano una spinta definitiva Picasso e de Chirico, Matisse e Derain, Strawinsky e Satie, la riproposizione di una realtà com’è, a cui giungere attraverso l’arte e con un mezzo audace quale la semplicità, è con Cocteau che prendono vigore, dando la possibilità di avvicinare e di comprendere Casella e Severini, Bontempelli e Palazzeschi, Savinio e Barilli, esempi di uno spirito cólto, innamorato della Grecia, alfieri tra i più alti di una mediterraneità che pone la poesia e l’arte al centro dell’universo e lo stile come veicolo per dire, con naturalezza, cose complesse.
Militanza con Le Corbusier
Nel 1934 Belli si impegna nella divulgazione di «Prélude», il giornale di Hubert Lagardelle, Charles Trochu, François de Pierrefeu, Pierre Winter, Albert Laprade e Le Corbusier, nato nel 1932 e chiuso nel 1936. Tre sono le ragioni che spingono Belli a far suo il programma del giornale indicato nell’articolo Esprit grec, esprit romain, esprit gréco-romain (numero 2, febbraio 1933) e quello di Le Corbusier, espresso in un articolo apparso nel 1933 con un attacco durissimo all’architettura mussoliniana: «Rome imitant Rome, une folle redondance»: l’opposizione all’isolamento provincialesco in cui il partito fascista vuole mantenere l’Italia; il fatto che tutte le sue attività artistiche (sue di Corbu) traggano ispirazione dal Mediterraneo; la possibilità, accostandosi alla Francia, di distrarre forti correnti interne che già vagheggiano il fatale patto con la Germania nazista.
Nel 1968, all’insegna di Goffredo Petrassi il cui pensiero musicale si evolve per collocarsi in una nuova dimensione, Belli guarda a una società dove alla presenza dell’anima si è sostituita una frenetica sollecitazione tecnologica e le manifestazioni dello spirito individuato tendono a scomparire. Enigma o crepuscolo? Per il nuovo umanesimo sognato da Belli (Fare il ritratto al secolo, scriveva nel 1940), armonico, capace di conferire una fisionomia stilisticamente ineccepibile alla nostra epoca, non possono esserci che questi nomi mediterranei, pronti a inventare, a fare un’arte di idee e non di concetti. Non invocava già Nietzsche la re-mediterraneizzazione della cultura e dell’arte? È, dunque, una scelta di civiltà, quella di Belli, un campanello di allarme, una luce accesa in permanenza sugli accadimenti, non solo del fascismo, l’humus su cui verificare il proprio eclettismo e al tempo stesso elemento di rottura, luogo di scontri feroci, non solo sull’architettura razionale, scenario aperto a ventate di colori-passione trasfigurati dall’allegoria, spinta all’immaginazione che scavi nel fondo delle memorie senza comprometterle con la storia che deve, ogni volta, farsi contemporanea.
Ecco perché, mai come nei posti mediterranei, Belli inviato speciale ha lavorato con tutto quanto ha trovato a portata di mano, districandosi-confondendosi con aria acqua fuoco terra e riportando il racconto dell’archeologia ai miracoli degli antichi tempi, «con lo splendore – scriverà Libero De Libero – della sua prosa munifica dettata da imprese che celebrano tuttora avvenimenti d’una regia platonica fino a rivivere quel mondo sommerso dai vari cataclismi lungo la fascia mediterranea». Non è sotto il cielo mediterraneo che Picasso e Joyce, de Chirico e Klee, Kandinsky e Le Corbusier hanno cercato le infinite possibilità non realizzate, quel mondo che, secondo Mario Praz, «Dio o la Natura o qualunque nome si voglia dare al Principio Vitale Supremo, ha rigettato»?
Un mondo che Carlo Belli ha fatto pensieri e sensazioni, amore e natura, pittura, dove domina la luce ermetica delle stelle e quella assorta delle lampare dei pescatori, l’immensità della notte e la lontananza spettrale della luna, il ricordo di antiche e misteriose acropoli e l’esaltazione pagana, una vasta successione di epoche scomparse, in sostanza una sconfinata libertà. Le opere nascono secondo i momenti, i luoghi, le circostanze. Ma ogni cosa, a Rovereto, a Firenze, a Roma, a Berlino, a Taranto, a Segesta, è un viaggio interiore, ricco di stimoli, con al centro le grandi civiltà greche e romane.
Grecia, gli dei sulla terra
Sole, cielo, mare, mistero, giornate memorabili, gioia di vivere, Egitto, Siria, Libano e soprattutto Grecia, il paese «che costruì la misura dell’uomo e fece scendere gli dei sulla terra». Una realtà percepita, presentita, vissuta e registrata nei più minuti particolari, così da scoprire sempre gli elementi nuovi, l’inimitabile, lasciandoci una testimonianza appassionante, una scossa di vita.
Tra le opere conservate da Belli nella sua collezione, filo conduttore dell’esistenza e itinerario stilistico, c’era una tempera di Fausto Melotti, La corsa dei cavalli, del 1951. Ancora una volta lo spettacolo della natura mediterranea, le sue componenti plastiche, così profondamente conosciute, lo eccitano nel gioco delle forme sostenute da spessi segni neri condotti nel «campo di battaglia» con un fare gestuale, una forza e una vitalità primordiale, un furore istintivo che non teme l’informe o le «belve» che tornano a divorare tanta arte contemporanea. Il toro di Picasso è il cavallo di Melotti: la possibilità di penetrare nella conoscenza, punto di arrivo ma immediata base di partenza verso un nuovo mondo classico o, se si vuole, verso un nuovo umanesimo.