Dopo la mostra sulle raccolte del principe guerriero Eugenio di Savoia Soissons a Venaria Reale nel 2012 e quella, tra il 2013 e il 2014 nella stessa sede, sui grandi dipinti veneti commissionati da Carlo Emanuele I di Savoia (1580-1630), ora Torino – fino al 2 aprile – ne dedica una interamente al collezionismo di quest’ultimo sovrano. Gli interessi del duca spaziano dall’egittologia alle scoperte di Galileo e il suo gusto artistico si muove tra la bottega del Bassano e quella del Veronese, gli ultimi Manieristi, il realismo dei primi seguaci del Caravaggio e la poesia già barocca di Giovan Battista Marino. La sua ascesa al trono (succede al padre Emanuele Filiberto, che aveva riportato la capitale sabauda da Chambéry a Torino, Sindone inclusa) coincide con l’arrivo in città dell’umbro Ascanio Vitozzi, che metterà in pratica la sua esperienza come architetto militare nell’organizzazione del nucleo principale della città, razionalmente improntato sul cardo e sul decumano di tradizione romana. La mostra si basa sugli studi pionieristici di Andreina Griseri, portati a frutto da Gianni Romano e collaboratori in uno storico volume, edito nel 1995, nella benemerita collana «Arte in Piemonte» della Cassa di Risparmio di Torino, che ebbe un avant-propos in un libro della Bramante, nel 1982, dedicato all’Armeria Reale. Romano purtroppo, dispiace dirlo, è il grande assente di questa mostra: magari bastava una paginetta di premessa anche perché tra i tanti saggi (non tutti di particolare originalità e interesse) avrebbe dato il senso di continuità tra un’esperienza e l’altra. Anche per non limitarsi a un aggiornamento delle attribuzioni, non sempre, del resto, da accettare a occhi chiusi (vedi il caso del proteiforme Luigi Amidani, supposto autore del fascinoso Martirio di San Bartolomeo).
Sabauda sfrattata
L’esposizione, curata da Anna Maria Bava ed Enrica Pagella, è allestita all’interno della Manica Nuova di Palazzo Reale dove è stata inaugurata, due anni fa, la Galleria Sabauda sfrattata dalla vecchia sede in cui coabitava con il Museo Egizio e, prima ancora, con quello di Antichità. La mostra tenta di porre in parte rimedio alla recente scellerata e scriteriata sistemazione della principale pinacoteca torinese. Il nuovo allestimento della Sabauda si basa su una presunta cronologia assoluta delle opere, prescindendo dal vecchio ordinamento di Sandra Pinto per collezioni, tanto utile storicamente e didatticamente. Così utile che chi voleva ricostruire, almeno in parte, la complessità degli interessi di Carlo Emanuele I poteva correre da un piano all’altro del palazzo di via Accademia delle Scienze, tra Museo Egizio e Galleria Sabauda, senza bisogno di una mostra. Anche se, a stare agli ultimi studi, la celeberrima Mensa Isiaca, la lastra di epoca romana che imita i geroglifici egiziani, già posseduta da Pietro Bembo, non è parte delle collezioni sabaude per merito di Carlo Emanuele I.
La Grande Galleria
La prima sezione della mostra si incentra sull’immagine del duca, che attorno a questa aveva creato buona parte della sua fortuna in vita, tanto da essere detto il Grande. Si passa poi all’impresa forse più straordinaria promossa da Carlo Emanuele I in persona: la Grande Galleria. La lunga struttura architettonica su due piani (uno coperto e l’altro, in basso, porticato) è edificata sulla base di una manica preesistente di raccordo tra l’antico castello al centro della piazza che, risistemata da Vitozzi, diventerà uno dei fulcri della nuova città, e il vecchio palazzo del vescovo, poi Palazzo Reale, ma che già a partire da Emanuele Filiberto era residenza ducale. Nella Galleria Carlo Emanuele I si fa progettare da Federico Zuccari, un artista di tradizione manierista, una volta celeste con le costellazioni affrescate. Nella parte inferiore erano sistemati armadi («guardarobbe di noce») con i libri e gli oggetti, i più disparati (strumenti scientifici e curiosità naturali secondo il gusto delle Wunderkammern d’oltralpe), le statue e i bassorilievi antichi.
Il primo corridoio, in mostra, mette in scena felicemente quest’impresa. Da una parte bisogna forse chiamare in causa lo Studiolo di Francesco I de’ Medici, allestito nel 1572: il gabinetto delle meraviglie e di tutte le varietà naturali, reso celebre, come emblema della fine del Rinascimento, dal professor Berti nel suo intramontabile Il Principe dello Studiolo. Dall’altro bisogna evocare i volumi recuperati da Federico Borromeo per la Biblioteca Ambrosiana, inaugurata nel 1609, come fa giustamente Anna Maria Bava nel suo bel saggio in catalogo. Infatti le curiosità di Carlo Emanuele I vanno dai testi greci (ma nella doppia pagina, aperta in mostra, del codice bizantino dei Commentari di Teodoreto della fine del X secolo, non saranno – su quella di sinistra – frutto di un restauro i Profeti, forse di un veneto della seconda metà del Cinquecento) a quelli in ebraico. Ma che cosa ci faceva nella Galleria un busto di Iside «cabalistica», che sembra un’inquilina del terzo piano di Polanski? E il libro sulle macchie solari di Galileo, che assomigliano a un Paolini avant lettre? E tutti quei frammenti scultorei connessi a riti sacrificali? «Donde» e «verso dove» (come recita una pagina De le stelle fisse di Alessandro Piccolomini, esposto in questa sezione)? Insomma non è che se si volesse entrare nei meandri della psiche di Carlo Emanuele I, come Berti fa per Francesco I, bisognerebbe scomodare più la Praga magica di Ripellino o il Warburg del Rituale del serpente? Cosa cercava il duca nelle opere e negli oggetti che possedeva? Tutti quei dipinti caravaggeschi (dispiace: il San Giovanni evangelista della Sabauda continua a essere di Serodine, come diceva Roberto Longhi e come sembra dire la scheda, nonostante l’intestazione), collezionati a date così precoci, in che direzione portano? Non è che a Torino si assiste all’ultimo rigurgito di Rinascimento italiano inteso nella sua accezione magica e misteriosofica, che fino ad allora non si era mai manifestata, in questi termini, in terra piemontese? È forse per il suo essere così tardivo che questo aspetto rimane legato alla città, nonostante le bufale e gli impostori, all’ombra della Gran Madre?
Michelangelo va a fuoco
E se rimane la magia non rimane purtroppo la Grande Galleria, bruciata nel 1659, in parte ricostruita e demolita definitivamente in epoca napoleonica. Spariscono in quel rogo anche i frammenti del cartone della Battaglia di Cascina di Michelangelo. In mostra, oltre ad alcuni pezzi in stucco recuperati durante dei restauri, si possono vedere i bei disegni di Federico Zuccari per le «immagini celesti» della galleria, ma anche quelli del meno celebre, ma autoctono, Guglielmo Caccia detto il Moncalvo, che per quest’impresa si produce forse nelle sue massime espressioni grafiche. Si può anche seguire il passaggio da un’idea della celebrazione dinastica dei Savoia a cavallo, affrescati alle pareti della Galleria – che chiama alla mente quanto pensato da Giulio Romano per Palazzo Te a Mantova (normativo anche per gli scorci celesti) – alla differente realizzazione effettiva, più in linea con le corti internazionali europee dell’epoca.
Il lavoro filologico di ricostruzione messo a punto grazie alla mostra ha portato notevoli incrementi soprattutto sul fronte archeologico.
Per gli amanti del bizzarro vale la pena anche una puntata alla Biblioteca Reale per ammirare i monumentali album naturalistici con un bestiario pre Audubon e pre Disney, con persino dei pop up d’epoca