Carlo Mollino, Giappone 1970, Humboldt Books 2016, euro 18

Ho per le mani un libro molto bello. È fotografico, ci sono testi e l’autore centrale in questo caso è il fotografo. Ma ne so poco, così mi metto a studiare il necessario, e intanto chiedo a chi di dovere. «Mollino? Era un genio», voilà. «Guarda quello che ha fatto con il Teatro Regio di Torino, oppure nel design, o i suoi scritti, o le foto, o addirittura il trattato sullo sci! Vedrai».

Inizio perciò a documentarmi, vedo, e alla fine confermo: un genio.

Carlo Mollino (1905-1973) è stato architetto, designer, fotografo, scrittore, sciatore e di sicuro molto altro ancora. Le molteplici attività, la qualità in ognuna di queste, il rapporto tradizione-innovazione, e il sincretismo del pensiero – mentre ne scopro l’opera vedo tutto questo e altro – me lo fanno sempre di più assomigliare ad un artista rinascimentale, di quelli dalle molte vite e per cui gli aspetti meno noti dell’opera possono essere, forse, più rivelatori della mentalità.

Ora, bibliografie alla mano, la fotografia di Mollino o almeno certa sua fotografia sembra meno conosciuta rispetto al lavoro di architetto e designer. A maggior ragione poi se non ci si riferisce ai suoi ritratti «erotici» di donne (le polaroid ritrovate dopo la morte) ma, anzi, quasi al suo opposto, una descrizione di viaggio in un Paese lontano – e infatti: cosa potrebbe esserci di più lontano dell’intimità dei corpi se non, appunto, un viaggio verso luoghi altrove?

In sintesi, è questo il tema del libro che ho per le mani, pubblicato da poco da Humboldt Books (www.humboldtbooks.com): Giappone 1970, taccuino fotografico di Carlo Mollino in visita nel Sol Levante per l’Esposizione Universale di Osaka del maggio dello stesso anno. A corredare le immagini, testi di Claudio Giunta (introduzione storico-culturale), Corrado Levi (ricordo) e Fulvio Ferrari (lettura critica).

Si tratta di un volume in grado di offrire, forse, alcuni spunti sul genio di Mollino.

Proviamo allora a focalizzarne uno, da due punti di vista.

Dentro l’immagine

«Appare in generale come Mollino non cerchi la “bella” fotografia. È un uomo freddo che compone: tiene i particolari in primo piano per dare profondità alla visione. Rette e curve armano le sue immagini. Giustifica il costruito facendo percepire con una fronda, con un giardinetto, un “disturbo” di vegetazione, la continuità e la contiguità tra l’opera dell’uomo e la natura.» Così Fulvio Ferrari nel suo ineccepibile e bel commento alle fotografie del libro.

In merito, il passaggio citato permette di soffermarsi su qualcosa di molto interessante.

A guardare la selezione delle immagini – in due parti: Giappone 1970 e l’appendice Altri Orienti – salta all’occhio come si possano estrarre dalla composizione più o meno due tendenze tra loro complementari, sempre in relazione al principio sottolineato da Ferrari: il decentramento del soggetto e l’estensione del piano.

Nel primo caso, basta soffermarsi sulle architetture dell’Expo nipponica. Come Ferrari chiosa: «Qui non documenta opere: solo frammenti. Non documenta tecniche ma sensazioni.» A questo va aggiunto come, appunto, la traccia figurativa di molte di queste immagini suggerisca un supplemento spaziale, un volume, un di più al di là del campo visivo – azzardiamo: il particolare per l’universale.

Nel secondo caso invece, si guardi a come Mollino fotografa scenari fuori ambito Expo, oppure singole persone o gruppi di persone, tra movimento e stasi: al di là dei contesti diversi (l’occasione, l’eccezionalità dell’Esposizione Universale, la quotidianità della vita sulla strada), al di là della possibilità aneddotica delle singole immagini (la storia di certe architetture, l’abbigliamento nipponico, lui come turista), la composizione visiva sembra tendere quasi sempre verso un gioco di linee di fuga molto sottile, un gioco (forse) architettonico, dove la forma modula figura e scena come un continuo. Tempo sospeso.

Considerando la filosofia di Henri Bergson, qualcosa di simile all’idea di uno spazio temporalizzato dove cogliere un istante significherebbe, in fondo, vedere (un) altrove.

L’ora eterno

Tra le diverse suggestioni che un libro come Giappone 1970 offre ce n’è una che per chi scrive è irrinunciabile, come un capriccio necessario: la dialettica tra un modo di vedere occidentale e orientale lo stesso argomento.

Ora, se il pensiero di Bergson sembra essere utile per apprezzare uno sguardo fotografico che vive tra visibile e invisibile, la domanda – qui – potrebbe essere: esiste un riferimento culturale orientale attraverso la cui lezione analizzare queste immagini? Anche solo per saggiare una vicinanza o lontanza di Mollino allo spirito di quanto da lui visto e documentato.

Ebbene, con un po’ di approssimazione, tenendo anche a mente la passione del nostro per l’altrove, alla fine la risposta potrebbe essere positiva, tendente all’avvicinamento e – soprattutto – rispondere al cognome e nome di Nishida Kitaro (1870-1945), filosofo giapponese che fu il fondatore di quella che è stata chiamata la Scuola di Kyoto.

Nella nostra lingua, lo studia e traduce da anni Enrico Fongaro, accademico di base in Giappone. Al riguardo, la nozione qui di interesse è quella dell’ «ora eterno», cioè – per Nishida – la dimensione temporale originaria, in cui il presente non è spazializzato e l’istante significa attenzione: «Nell’esperienza immediata c’è solo un unico reale concreto indipendente e in sé totalità, non c’è né un soggetto che vede né un oggetto che viene visto. Proprio come quando siamo rapiti da una musica meravigliosa, l’io e le cose si dimenticano reciprocamente e cielo e terra sono semplicemente un unico canto melodioso, in quell’attimo (setsuna) è presente la vera realtà.»

Guardando le immagini di Giappone 1970 – la sottigliezza compositiva, la fluidità ritmica – sembra di poter dire che sì, in alcuni momenti tutto si tiene perché tutto passa.

Lo spaesamento non è mai stato così armonioso.