Ci sono autori che sembrano avere tutti i requisiti per essere bene accolti dai lettori nel nostro paese, e che invece, per motivi non sempre facili da capire, non riescono a incontrarli. Qualcosa del genere accade con Sergio Pitol, scrittore messicano di non troppo lontane origini italiane (il suo cognome completo è Pitol Domeneghi) i cui libri sono stati proposti prima da Sellerio negli anni novanta, e più recentemente da Nottetempo e da Sur, senza che il suo nome abbia varcato un limitato gruppo di lettori. Eppure Pitol possiede una solida traiettoria narrativa – diverse raccolte di racconti e cinque romanzi – e appartiene a quel drappello di scrittori di origine italiana che in Messico – per nascita o per elezione, e in alcuni casi scegliendo lo spagnolo come lingua d’adozione – hanno sviluppato i propri itinerari di scrittura, non nascondendo mai il legame con il paese d’origine e anzi utilizzandolo per disegnare una geografia transatlantica, e per assumere una distanza che permette di indagare l’Europa, e l’Italia, in una sorta di «esotismo al contrario», in cui diventiamo noi gli oggetti dell’osservazione.

Nato a Veracruz nel 1933, Pitol appartiene di diritto a quella scintillante generación de medio siglo che ha segnato in forma indelebile la letteratura messicana del Novecento: una generazione di giovani artisti che, arrivati dai quattro angoli del paese, ne rinnovarono in profondità la cultura, dialogando da una parte con figure come Juan Rulfo, Carlos Fuentes e Octavio Paz, e dall’altra con le espressioni più avanzate delle arti europee e statunitensi. Ed è proprio questo dialogo a segnare tutta la scrittura di Sergio Pitol, fin dal primo racconto, «Victorio Ferri cuenta un cuento» che nel 1959 lo rivelò al pubblico messicano.

Il primo periodo della sua scrittura è dedicato esclusivamente al racconto, un genere che non avrebbe comunque mai abbandonato, tanto da costituire il «basso continuo» di tutta la sua produzione. Pitol attraversa le forme brevi con straordinaria maestria, alla scuola dei grandi che ha lui stesso tradotto: una buona parte dei suoi temi preferiti si trovano già qui, in architetture narrative che sembrano compiute, perfettamente chiuse, ma che portano sempre il lettore a tornare sui suoi passi, a rileggere la storia: come quando in un racconto poliziesco si ha l’impressione di aver perso il dettaglio decisivo, per scoprire che non è possibile alcuna rivelazione oltre la pagina scritta. Tutto è, infatti, già presente, in attesa del lettore che ne risvegli il significato.

I racconti di Pitol si propongono spesso secondo la tecnica delle «scatole cinesi», cui si accompagna uno stile di scrittura fatto di deviazioni, digressioni, monologhi disordinati, un sovrapporsi polifonico di voci e di modi di raccontare, che possono appartenere a volte anche allo stesso personaggio, ma che rimandano sempre a diverse versioni della realtà, «all’inutilità dei dogmatismi, delle categorie del ‘sempre’ o del ‘mai’, dato che tutto dipende da chi parla e da dove e quando lo fa», come ricorda Mari Cruz Castro Ricalde, una delle sue interpreti più acute.

A partire dagli anni settanta Pitol cominciò a pubblicare romanzi: El tañido de una flauta (1972) e Juegos florales (1984), mentre La vita coniugale – ora riproposto da Nottempo nella traduzione di Lia Ogno (pp. 153, euro 13,00.) chiude la serie di quello che lui stesso ha definito «Trittico del Carnevale» – pubblicata in spagnolo anche in volume unico, con l’introduzione di Antonio Tabucchi.
L’idea del carnevale venne fornita a Pitol dalla lettura del libro di Bachtin sull’opera di Rabelais e i tre romanzi vogliono essere una moderna versione della festa medievale, in cui prende vita un «mondo alla rovescia» dove l’esagerazione, la parodia, la maschera, il gioco permettono di mostrare ciò che altrimenti dovrebbe rimanere occultato. I romanzi del Trittico si presentanto allora come romanzi «allegorici», leggibili a diversi livelli, tutti ugualmente importanti, dato che nel carnevale la maschera conta tanto quanto il volto che nasconde.

Nelle pagine della Vita coniugale si potrà allora entrare seguendo di nuovo il principio delle scatole cinesi; la prima, la più evidente, viene rivelata fin dal titolo: l’esilarante descrizione di una impossibile relazione di coppia, dove ai tradimenti di lui, Nicolás Lobato, uomo la cui ottusità è pari solo alla sua abilità di uscire indenne da qualsiasi catastrofe, corrispondono i tentativi di assassinarlo da parte di lei, Jacqueline Cascorro, donna simpaticamente odiosa, che affida i suoi piani omicidi, arzigogolati e improbabili, a successivi amanti, i quali falliscono tutti, per giochi di interessi incrociati o per vera e propria incapacità. Questa prima lettura si gioca tutta sul filo dell’esagerazione, dell’iperbole grottesca, che ricorda certe commedie all’italiana, o il surrealismo feroce dell’ultimo Buñuel, con un ritmo velocissimo, quasi da vaudeville. Se questa è la lettura più immediata, la seconda scatola ci rivela invece come l’irresistibile ascesa della coppia Nicolás- Jacqueline sia in realtà quella della borghesia messicana, dei nuovi ricchi che emergono con la crescita economica degli anni cinquanta, fanno fronte alla crisi del sessantotto, a quella degli anni settanta, per naufragare nella spirale del «decennio perduto». La storia della vida conyugal è allora anche quella di un modello borghese in cui Nicolás costruisce impunemente la fortuna economica e Jacqueline cerca di cancellare le umili origini familiari in una vertigine di feste di società, di attività culturali (delle quali capisce poco o niente), di viaggi all’estero: il fallimento degli omicidi rivela però che la sparizione di uno significherebbe la scomparsa dell’altro, e d’altra parte ogni volta che Jacqueline elabora uno dei suoi piani, aumenta anche il suo ardore erotico nei confronti del marito.

Questa feroce satira nei confronti della borghesia messicana apre la terza scatola, in cui Jacqueline e Nicolás sono in realtà due maschere dello stesso mostro, una società che vive una schizofrenia mai risolta: da una parte la sua anima profonda, tradizionalista, pronta al compromesso e dalla corruzione facile, un’anima incarnata da Nicolás, il maschio che «non ha risparmiato nessuna delle donne che lavorano alle sue dipendenze». Dall’altra parte l’anima che vuole modernizzarsi, svilupparsi secondo i modelli del mondo «ricco», impersonata da lei, che a un certo punto si cambia il nome – da María Magdalena a Jacqueline – e inizia a pronunciare il cognome alla francese, Cascorró. In questa scatola tutto assume un significato ancora più parodico, come il fatto che i sicari scelti siano un giovane cugino, arrampicatore sociale della stessa stoffa del marito, un politico rampante, un intellettuale italiano, un attore, e infine un veleno, figure e maschere di una società descritta senza pietà; altrettanto importante si rivela allora la cronologia degli eventi, precisamente scandita lungo le pagine del romanzo, in cui le date corrispondono sempre a momenti cruciali della storia messicana. E non sarà un caso che la data-cerniera nella storia di Jacqueline e Nicolás sia il 1968, e che in quel capitolo brevissimo venga effettivamente sparato l’unico colpo di pistola, ma che per errore di mira colpisca Jacqueline invece di Nicolás.

L’ultima scatola supera così i confini del Messico, perché una simile schizofrenia non appartiene di certo solo a quella società, e tende a ripetersi in tutte le situazioni in cui modernizzazioni forzate, secondo prototipi venuti spesso dall’esterno, si sono imposte grazie a connivenze più o meno criminali, che si sono poi rivelate ineleminabili: la scena finale, dove un uomo ormai anziano spinge la sedia a rotelle su cui siede una Jacqueline disfatta e incapace di parlare, la dice lunga su chi alla fine avrà la meglio in questa lotta feroce.