«Leila è me e io sono lei: è come una striscia di un fumetto di Moebius. Me la porto dietro e la conosco meglio di chiunque altro. Spesso indossiamo gli stessi vestiti. È mia». Quando è stata colpita dall’attacco di cuore in seguito al quale sarebbe mancata, quattro giorni dopo, Carrie Fisher era a bordo di un aereo di ritorno da Londra, dove era stata per il tour promozionale del suo nuovo libro The Princess Diarist, una collezione di appunti e diari scritti durante la lavorazione di Star Wars, il film – anzi i film – a cui sarebbe stata indissolubilmente associata tutta la vita. Una condanna che Fisher ha sempre accettato con l’umorismo tagliente e autoironico che la contraddistingueva. «Mi portano le loro bambine quasi dovessi benedirle. A due mesi hanno già il costume di Leila – come se le madri lo avessero inghiottito per dare alla luce una neonata con i capelli acconciati tipo cuffia stereo» ha detto a Usa Today.

Aveva reagito bene anche quando l’anno scorso, all’uscita di Star Wars: il risveglio della forza avevano scritto che era brutta, grassa, e in forma peggiore di quella di Harrison Ford: «Per piacere smettete di dibattere se sono, o meno invecchiate bene. Urta tutti i miei tre sentimenti. Evidentemente il mio corpo non è invecchiato bene come me».

Se, per il mondo, Carrie Fisher rimarrà per sempre la principessa Leila – italianizzazione del nome originale che era Leia – prima ancora di incontrare George Lucas, Fisher era già una Hollywood royalty, parte di quella rarefatta aristocrazia dello spettacolo Usa, che in questo paese è la cosa che più si avvicina al vero e proprio sangue blu. Di quell’aristocrazia, Carrie, nata dal matrimonio tra Debbie Reynolds e la pop star Eddie Fisher (prima che venisse distrutto da Elizabeth Taylor) era una figlia ribelle, e amatissima. In tutti gli alti e bassi che hanno caratterizzato la sua carriera, e la sua vita privata, ampiamente documentate nel suo romanzo autobiografico Cartoline dall’inferno, nel memoriale Wishful Drinking e in The Princess Diarist.

Storie di arte, di famiglia, di dipendenza dalla droga, di overdose, degli elettroshock con cui si curava la depressione, di disperazione ed euforia, della sua tumultuosa relazione con Paul Simon (con cui è stata sposata un anno e che su di lei ha scritto Hearts and Bones) o di quella con Harrison Ford, rivelata a sorpresa nell’ultimo libro – raccontate con generosità e umorismo enormi. Senza paura.

 

 

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Non a caso, Fisher è stata la frequente fonte d’ispirazione di uno dei grandi narratori hollywoodiani contemporanei, Bruce Wagner, che era un suo carissimo amico. In Bright Lights, un documentario di Hbo presentato a Cannes e poi al New York Film Festival di quest’anno, abbiamo scoperto che aveva una voce bellissima e che sua madre ha sempre sperato per lei in una carriera musicale. Le abbiamo viste andare avanti e indietro nelle loro case, una vicina all’altra – perfetta come un museo del tardo ottocento quella di Reynolds, colorata e disastrata come un bazar quella di Fisher, che collezionava cose strane e, soprattutto, da poco. Le abbiamo viste insieme alle aste in cui Debbie Reynolds ha liquidato, poco a poco, la sua incredibile collezione di memorabilia hollywoodiani.

Ma il ritratto più indelebile, ridicolo/doloroso del loro rapporto rimane quello nell’adattamento di Cartoline dall’inferno, di Mike Nichols, un film che Carrie aveva anche scritto, con Meryl Streep, nel ruolo «alla» Fisher, e Shirley McLaine in quello alla Debbie Reynolds.

Tra gli altri titoli per cui va ricordata, insieme ai Guerre stellari, bisogna partire da Shampoo, il suo esordio al fianco di Warren Beatty. Indimenticabile la sua «donna misteriosa» all’inseguimento di John Belushi e Dan Aykroyd in I Blues Brothers di John Landis, che l’aveva voluta anche per Donne amazzoni sulla luna.

E poi Hannah e le sue sorelle, di Woody Allen, Austin Powers: il controspione, Harry ti presento Sally, L’erba del vicino di Joe Dante, Bolle di sapone e Scream 3. Grande, di nuovo al fianco di Aykroyd, la sua apparizione in This Is My Life, la prima regia di Nora Ephron, di cui Fisher amava la penna affilatissima.

In Maps to the Stars, l’adattamento del romanzo omonimo di Bruce Wagner, David Cronenberg, capendone alla perfezione il personaggio, le aveva chiesto di interpretare se stessa. E, nello spirito autoironico di sempre, Fisher è spuntata qua e là anche in serie televisive come Entourage, Saturday Night Live, Weeds, 30 Rock e nell’animata Family Guy.