American Honey, dolcezza americana che ha un gusto beffardo nello skyline di ragazzini soli, generazioni condannate alla marginalità, abusati da padri violenti e madri indifferenti, adulti rapaci, economie precarie. Il solo rifugio è l’on the road che se negli anni Settanta era il mito della libertà nel film di Andrea Arnold appare come una nuova schiavitù nel segno del capitalismo. Fare soldi è il credo della setta che li raccoglie questi ragazzi perduti senza nessun Peter Pan. Al massimo un seduttore furbo, il «migliore dei venditori» che sa cogliere la disperazione negli occhi di una ragazzina sola. Potenziale venditrice pronta a tutto e forza lavoro per il nuovo liberismo delle economie mobili. Sulla strada cantando Rihanna niente sesso né piacere, vale solo il profitto.

 
Il film di Andrea Arnold, la regista inglese per la seconda volta premiata dalla giuria di Cannes – la prima è stata con Fish Tank, mentre Cime tempestose quattro anni fa ha avuto la migliore sceneggiatura alla Mostra di Venezia – è stato uno di quelli che ha diviso radicalmente il pubblico cinefilo giovane e meno giovane sulla Croisette – tra i fan sembra che ci fosse il presidente George Miller.

 
Arnold insegue il motivo della ballata classica in chiave contemporanea nei paesaggi americani del midwest white trash di miseria, crack, pollo marcio ogm recuperato dalla spazzatura, scritta sul corpo esuberante della giovane protagonista Star – la ventenne Sasha Lane che Arnold ha trovato per caso su una spiaggia californiana durante la preparazione del film – che la madre ha lasciato coi due fratellini e un molesto ex. La ragazza si occupa di tutti, subisce i palpeggiamenti dell’uomo, cerca di nutrire i piccoli con quello che trova e che riesce a rubare al supermercato, finché un giorno non incontra un ragazzo di quelli che non puoi non notare. Scambi di sguardi, attrazione, lui le propone di partire col suo gruppo, lei esita pensando ai bambini ma poi decide

 

 

. Il tizio è Jake, ovvero Shia LaBeouf in stato di esaltazione, venditore porta a porta sulle strade americane di riviste – «Ma c’è ancora chi le legge?» è il commento più diffuso. Il capo di quella che appare appunto più una setta che un’impresa è una giovane donna, il prototipo della stronza. Lui è il suo uomo più sveglio ma con Star non funziona, non vende e la boss più che gelosa sembra seccata perché perde soldi. Bikini con i colori della bandiera sudista e tatuaggi, il trucco sfatto non ama Star, crea disordine. Ma Jake e Star si piacciono, fanno l’amore, lui la cerca, lei ci crede. È vero o è un’altra truffa?

 
L’europeo che racconta l’Ammerica fallisce sempre mi dice un amico americano. Già. Ma forse in questo catalogo di fast food e pozzi petroliferi il fatto che Arnold sia inglese non è il principale problema. Quello che infastidisce è lo sfoggio di una presunta radicalità di intenti – compresa la scelta del formato 1.33:1 quasi a esasperare la solitudine disperata dei personaggi – che maschera una visione americana, o forse ancora meglio del presente parecchio contraffatta.

 

 

Tutto è lì, sotto ai nostri occhi, e nell’intento di rovesciare il mito americano in un falso movimento senza futuro – (la citazione di Springsteen è un colpo basso) Arnold confeziona un pacchetto precotto di istantanee comuni. Non solo nel mostrare le sue ispirazioni (si pensa ovviamente a Korine ma anche a un certo Robert Frank) ma soprattutto nel disegno dei suoi personaggi, figurine senza affetto funzionali al progetto del suo film.

 

 

Sasha Lane poteva essere magnifica, è un gran corpo di energia, ma Arnold la condanna a una sola direzione. Monocorde come quella di un racconto che il contemporaneo lo traduce in cartolina. Non c’è inquietudine ma solo certezza. Tutto è proprio come lo sapevamo già.