Quando La Carte postale di Jacques Derrida, ora edito da Mimesis mantenendo, non si capisce perché, il titolo originale francese (pp. 513, euro 28,00), uscì in Francia nel 1980 destò non poche sorprese: il filosofo rigoroso e schivo che, nei volumi precedenti, aveva voluto non comparissero nemmeno le abituali note biografiche in quarta di copertina – del resto erano gli anni in cui su «Tel quel», la rivista della neo-avanguardia francese a cui Derrida collaborò tra il 1965 e 1971, si teorizzava che è l’opera a firmare l’autore e non viceversa – nella prima parte di questo libro, intitolata Invii, pubblicava un lungo epistolario erotico in cui, insieme a serrate e asistematiche annotazioni filosofiche, metteva in piazza – o sembrava mettere in piazza – con narcisistica impudenza, sentimenti, dettagli biografici, risvolti privati della sua vita pubblica, tic, risentimenti e così via.

Ma come appare fin dal titolo, le cose sono più complicate: queste lettere, che si dicono scritte sul rovescio di cartoline postali, come tutte le cartoline possono infatti essere lette da chiunque e possono sempre non arrivare a destinazione; è una possibilità strutturale propria a qualunque lettera, e in sostanza a qualunque comunicazione. Alla tesi sostenuta da Lacan nel celebre Seminario sulla «Lettera rubata», secondo la quale una lettera giunge sempre a destinazione, Derrida oppone l’eventualità che questo non succeda: in altri termini, la deviazione non è necessaria, ma la possibilità di deviare è necessariamente iscritta in ogni invio.

La tesi (i cui fondamenti teorici sono esposti secondo modi più convenzionali nel volume in polemica con Searle, Limited inc., 1988, tradotto da Cortina nel 1997) nella Carte postale è non solo enunciata, ma praticata, performata: per questo Invii, benché formicoli di riferimenti a persone e eventi reali, più che un epistolario vero e proprio, è qualcosa di simile a un romanzo epistolare che incorpori l’antichissima tradizione della lettere filosofiche; o anche, scrive lo stesso Derrida richiamandosi a Northrop Frye, rimanda a una sorta di «anatomia della cartolina» del genere esemplarmente rappresentato dall’Anatomy of Melancholy: composizioni che dalla satira menippea prendono l’amore per le compilazioni enciclopediche, gli intenti parodistici e le divagazioni incontrollate. A queste composizioni, che ebbero un loro momento particolarmente felice nell’età barocca, il libro di Derrida si apparenta anche per l’importanza attribuita all’immagine del frontespizio, che nel XVII secolo si diceva emblematica (ne ha scritto di recente Agamben), una caratteristica ripresa da altri contemporanei lavori francesi e su cui bisognerebbe riflettere: penso a Le parole e le cose che si apre con le pagine dedicate a Las Meninas, all’Anti-Edipo che si presenta con l’immagine del Boy with Machine di Lindner, o alle copertine dei Seminari di Lacan (di Bernini, Holbein e altri, tutte commentate nel testo).

Allo stesso modo, Derrida, o meglio l’autore delle lettere raccolte in Invii, racconta di aver visto a Oxford la riproduzione di una miniatura di Matthew Paris (XIII sec.) singolare perché rappresenta Socrate e Platone in atteggiamento opposto rispetto alla tradizione consacrata: il primo è infatti intento a scrivere, mentre l’allievo, dietro di lui, sembra suggerirgli, se non imporgli, quanto va scrivendo. Questa immagine (la cui riproduzione è poi la cartolina, acquistata a stock, su cui Derrida scrive le sue lettere d’amore) è a lungo commentata e si presta a divagazioni non solo su Socrate e Platone (compresa una discussione sull’autenticità delle lettere platoniche e sulle dottrine non scritte), ma anche, più in generale, sulla questione dell’eredità intellettuale dei grandi pensatori, in particolare di Freud, e sulla pretesa di essere il suo unico autentico erede da parte di Lacan. La severa critica di quest’ultimo (sfociata in un vero e proprio scontro tra i due), era stata già sviluppata nel Fattore della verità (pubblicato su Poétique nel 1975), minuziosa disamina del Seminario sulla «Lettera rubata» riproposta come terza parte di questo volume, che presenta, nella seconda parte (Speculare – su Freud), un seminario sull’opera del 1920, Al di là per principio di piacere, mirato a evidenziare le radici filosofiche delle dottrine freudiane (e quindi a decostruirne l’impianto metafisico). In questo senso il libro, con cui Derrida cerca di mettere a fuoco il suo complesso rapporto con Freud, è la prosecuzione di un’opera intrapresa dal filosofo fin dagli esordi, dove da una parte critica la metafisica (che intende sostanzialmente in senso heideggeriano), dall’altra denuncia i fondamenti metafisici dello strutturalismo allora imperante (attaccando senza esitazione mostri sacri come Lévi-Strauss, Foucault, Benveniste e, appunto, Lacan), per rivendicare, se non il primato, l’ineliminabile portata dell’istanza filosofica, di cui troppo spesso si pretendono indenni le cosiddette scienze umane.

Qualche parola sul rapporto con Heidegger, al quale proprio in questo libro Derrida dichiara di sentirsi contemporaneamente il più vicino e il più lontano possibile, sarebbe opportuna se non si sostituisse a questa priorità l’obbligo di fermarsi sulla traduzione. Non a caso si sono aspettati trentacinque anni prima di tradurre il libro: lo spessore letterario della prima parte presenta senz’altro seri problemi di interpretazione, mentre sono relativamente più piani gli altri due testi compresi nel volume, non a caso già tradotti (Speculare su Freud, Cortina 2000; Il fattore della verità, Adelphi 1978). Benché già esistano la versione tedesca, inglese, spagnola, resta il fatto che, se tradurre Derrida non è mai facile, tradurre questo Derrida è difficilissimo: ciò premesso, non tutti i curatori-traduttori (Luana Astore, Federico Massari Luceri e Federico Viri, dottorandi di ricerca in filosofia) sono stati all’altezza del compito.

Mentre la versione del Fattore della verità a cura di Massari Luceri è più che dignitosa, la traduzione delle altre parti, in particolare della prima (dovuta ad Astore e Viri), lascia allibiti: per esempio: plume (termine che ricorre spessissimo nel libro e che, come si sa, corrisponde all’italiano «penna») è reso senza eccezioni con «piuma»; arrêt de mort regolarmente con «arresto di morte»; souffler con «soffiare» anche quando significa «suggerire» e «respirare», adresse con «indirizzo» anche quando significa «abilità»; càpita che collectionneurs (di cartoline postali) sia reso con «collezionatori» (più avanti hanno scoperto che in italiano si dice «collezionisti», ma non sono tornati a correggersi).Talvolta si sfiora involontariamente il comico, come quando m’envoyer promener (cioè «mandarmi a girare»), viene tradotto con «inviarmi a passeggiare»; oppure quando si parla di un quadro appeso al muro «poco sopra il segretario» (che è ovviamente un secrétaire); o ancora quando si dice che Ester, nel libro omonimo della Bibbia, ha fatto «pendere» («impiccare», naturalmente) il malvagio Haman.

Forse i traduttori, che in una nota dichiarano, con invidiabile sicurezza circa il significato dell’espressione, di aver cercato d’esser fedeli «alla lettera» dell’originale, sono stati indotti a prestare un’attenzione esagerata a giochi di parole, omofonie, costellazioni etimologiche a scapito della leggibilità dell’italiano; ma questa aspirazione si accompagna purtroppo anche a una disinvoltura nei confronti della morfologia e della sintassi francesi che non sembra affatto preoccupata della fedeltà, tant’è vero che si confondono futuro e condizionale, presente e passato remoto, addirittura il sopra e il sotto (almeno tre volte), il comme comparativo e il comme causale, il si congiunzione e il si avverbio e così via, con risultati ora di nuovo comici (eredi zelanti di Joyce avrebbero fatto erigere una sua statua in grandezza naturale «al di sotto» della sua tomba a Zurigo), ora del tutto assurdi: tout ce qui s’envoie bon gré mal gré fait la loi…, per esempio, diventa «tutto ciò che s’invia di buon grado malgrado la legge…»; Aucune théorie rigoureuse de la “réception”, si nécessaire soit-elle cependant, ne viendra à bout de cette littérature-là, diventa «nessuna teoria rigorosa della ‘ricezione’, se necessaria che sia tuttavia, non arriverà a capo di questa letteratura»; per non dire dei casi in cui sembra non ci si renda nemmeno conto di cos’è ciò di cui si sta parlando, come quando per ben due volte nella stessa pagina il comitato segreto che avrebbe dovuto vigilare sull’ortodossia psicoanalitica, cosiddetto dei sette anelli (in francese anneaux: i sette membri portavano tutti anelli simili), diventa il «comitato dei sette anni»; o ancora quando si fa dire a Derrida che il «nostro amico» (cioè Nietzsche) ha spiegato efficacemente «perché Aristofane era per Socrate il più grande dei sofisti».

Sarebbe possibile ma ingeneroso moltiplicare gli esempi di una traduzione che fa torto non solo a Derrida, ma anche ai suoi autori: perché sorprende, soprattutto, che nessuno abbia dato un’occhiata al lavoro prima che andasse in stampa. Così, è francamente illeggibile. Una seconda edizione radicalmente riveduta e corretta sarebbe assai utile perché La Carte postale resta un libro importante per capire lo sviluppo della filosofia occidentale nella seconda metà del XX secolo.