«Sia i cattolici che i protestanti celebrano il Saint Patrick’s Day andando in chiesa, e in un certo senso lo celebrano anche gli ebrei, ma lo fanno tranquillamente a casa loro, mangiando e bevendo quel vino da rabbini che ucciderebbe un cavallo». Siamo a New York nel 1963 e Brendan Behan, uno degli scrittori, drammaturghi, e uomini pubblici che più di ogni altro nel Novecento, ha esportato nel bene e nel male l’immagine di un’Irlanda indomita nel mondo, sceglie in quell’anno di tornare nella sua nuova città d’adozione: New York. Lo fa dopo essersi, per l’ennesima volta, lasciato alle spalle la sua isola: «un gran posto da cui ricevere una cartolina», diceva spesso. L’America lo conquista, e ancor di più lo fa il leggendario Chelsea Hotel, sulla 23ma strada, proprio dove era iniziato, una decina di anni prima, il declino accompagnato da massicce dosi di whiskey, di un suo nume tutelare, Dylan Thomas. Behan conservava di Thomas il mito, ne seguì pure le tracce, abbandonando il mondo l’anno successivo, nel 1964, proprio a ridosso della festa di San Patrizio; assistito, peraltro, dalle stesse «medicine» che avevano segnato la fine del poeta gallese.

Effetti combinati

Esce in questi giorni, per la splendida traduzione di Riccardo Michelucci, Un irlandese in America. Brendan Behan a New York (66thand2nd, euro 20,00, pp. 168). È un libro atipico, una confessione romanzata, non scritta, bensì registrata con l’aiuto di una stoica editor della Hutchinson, Rae Jeffs, che seguì da vicino, e con un microfono in mano, gli ultimi anni di Brendan Behan, quando questo – ex volontario dell’IRA e frequentatore di prigioni di tutto il mondo – lui che amava definirsi «il soldato più catturato della storia d’Irlanda» – non fu più in grado di scrivere a causa degli effetti combinati di un diabete avanzato diagnosticato troppo tardi, e di una passione sfrenata per il bere. Diceva, Behan, di essere «a drinker with writing problems», e senza dubbio così dovette sembrare a più di un irlandese benpensante, quest’uomo corpulento il cui debutto teatrale con un meraviglioso e scioccante dramma sulla pena di morte, L’impiccato di domani, aveva conquistato, grazie ai suoi modi diretti e non mediati, i cuori e le menti delle audience di tutto il mondo. Quando fu invitato dalla BBC per parlare del dramma, Behan, davanti a milioni di telespettatori per lo più inglesi, si tolse le scarpe ubriaco, e iniziò a cantare canzoni repubblicane irlandesi. Noto ancora oggi per gli epigrammi estemporanei e le freddure, ce l’aveva con la sua Irlanda più che con ogni altra nazione, perché «se uno scrittore non è in grado di criticare il proprio paese, come può mai mettersi a criticare quello degli altri?».

Comunista, scomunicato dalla chiesa per l’appartenenza all’IRA, si definiva «ateo di giorno, e cattolico non appena si fa buio».
La sua ricostruzione di New York, in quegli anni difficili in cui l’alcolismo si sommava alle infauste previsioni del processo degenerativo del diabete avanzato, appare tuttavia allegra, spontanea, fresca e incredibilmente sagace. Come nell’episodio in cui riesce in maniera rocambolesca a far ottenere a una ragazza, a insaputa di suo padre, i soldi per abortire, facendole vincere appositamente il secondo posto di un concorso letterario della cui giuria era presidente. Ma perché il secondo posto e non il primo? Perché solo al secondo classificato spettava un premio in denaro, mentre al primo sarebbe andata una vacanza. Sono episodi, quelli raccontati da Behan, apparentemente scollegati, caotici come il pensiero, illogici come la realtà. E in un certo senso tragici, perché rispecchiano il dramma di uno scrittore oramai fisicamente impossibilitato a scrivere. Ma non a parlare. E infatti, come notò molti anni fa il grande critico Cyril Connolly recensendo uno di questi libri registrati: «Behan scrive come uno che sta parlando». Proprio così, Behan parlava, nientemeno, e niente più. Era questa la sua grande passione, seconda soltanto all’alcol e al sogno di un’Irlanda socialista.

Nuotare nell’oceano

Behan aveva detto, riferendosi agli inglesi: «ci hanno tolto la nostra terra, il nostro idioma, la nostra religione; ma non hanno saputo mettere a freno la nostra lingua». E infatti, nelle tante interviste che pullulano nel web, è ancora possibile assaporare il senso segreto di questa sua facondia tutta irlandese, che fonde l’eloquio fulminante di Oscar Wilde, il ragionare avvolgente di George Bernard Shaw, la lingua fantasmagorica di James Joyce e finanche i silenzi pieni di senso di Samuel Beckett. Proprio di quest’ultimo, in un altro libro registrato, Behan aveva spiegato come fosse possibile amarne l’opera senza davvero capirla nel profondo. E per rendere conto di un tale assunto apparentemente contradittorio, aveva dichiarato con assoluto candore e semplicità: «amo nuotare nell’oceano, ma questo non significa che io lo comprenda».

Behan era fatto così, sapeva sfruttare al meglio la sua capacità di giocare con le parole, e di usarle per moltiplicare l’eco delle proprie imprese «eroiche». Un irlandese a New York è il terzo dei suoi libri registrati, quello probabilmente più post-moderno e distante dalla linearità tipica della narrativa a cui è abituato un lettore in cerca di semplici storie che facciano tornare i conti. Gli altri due, Confessioni di un ribelle irlandese e L’isola di Brendan Behan (inedito in Italia, ma si spera ancora non per molto) posseggono probabilmente una maggiore coesione, e arrivano più al cuore del lettore tradizionale, anche in virtù della loro composizione in periodi in cui l’autore dovette godere di una salute migliore. In quelli, a dispetto dei detrattori, Brendan Behan è ancora capace, ad esempio, di non mostrarsi politicamente disilluso, come molti suoi critici su basi principalmente moralistiche hanno voluto far credere. Leggendaria, per esempio, la lettura dell’impasse politico-identitaria nella storia della sua Irlanda, nata a partire dalla divisione dell’isola in due, nel 1921: «oh, se solo Larkin [famoso sindacalista organizzatore dei lavoratori durante la grande serrata del 1913, ndr] avesse saputo l’irlandese, o se solo Michael Collins [il noto orchestratore della guerriglia anti-inglese durante la guerra d’Indipendenza, ndr] avesse avuto nozioni di leninismo!». Behan fu in grado fino alla fine, nonostante condizioni fisiche più che precarie, di una lucidità intellettuale che è ancora oggi motivo di interesse per le questioni irlandesi. Quando lasciò il mondo, il suo amico Flann O’Brien scrisse: «oggi le strade di Dublino appaiono stranamente silenziose».

La sua bara fu portata a spalla da vecchi compagni dell’esercito repubblicano Irlandese, tra cui Cathal Goulding, amico fraterno e chief of staff dell’IRA. Questi sarebbe poi divenuto il compagno di Beatrice Ffrench-Salkeld, vedova di di Behan, facendo della casa di Brendan a Ballsbridge il centro della riorganizzazione in senso marxista leninista di una parte sostanziale del movimento repubblicano alla fine degli anni ’60. Alcuni attimi prima di morire, Behan, in una corsia del Meath Hospital, a Dublino, impossibilitato a bere per l’avanzato stato cirrotico, chiese a una suora di bagnargli le labbra con una pezza umida. Lei lo assecondò, e lui le regalò una battuta degna del finale tragico e ribelle della sua esistenza straordinaria: «grazie, sorella, che tu possa dare alla luce un vescovo».

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INCONTRI. Al via la settima edizione di «Libri Come»

Comincia oggi all’Auditorium Parco della Musica, la settimana edizione di «Libri Come», grande festa del libro e della lettura a Roma, da oggi al 20 marzo che quest’anno è dedicata al tema «Roma e le altre (città)». L’iniziativa, promossa e organizzata dalla Fondazione Musica per Roma, con il sostegno dell’Instituto Cervantes e RAI Radio 3, è a cura di Marino Sinibaldi con la collaborazione di Michele De Mieri e Rosa Polacco.
Gli scrittori e le scrittrici che si confronteranno lo faranno attraverso le narrazioni di città altre, spesso le proprie sia reali che letterarie. Dopo aver ascoltato, nell’anteprima di dicembre, il premio nobel Orhan Pamuk raccontare Istanbul, domani Jonathan Coe e Alessandro Mari racconteranno Londra, mentre domenica lo scrittore e saggista spagnolo Javier Cercas mostrerà Barcellona insieme a Bruno Arpaia. Sempre domenica lo scrittore nigeriano Chigozie Obioma interverrà sulle città dell’Africa con Igiaba Scego. E ancora il viaggio letterario intorno a Damasco e Gerusalemme – con la scrittrice e architetta palestinese Suad Amiry con Paola Caridi. E ancora Parigi, Monte Carlo, e poi Latina, Milano, Trieste, Venezia.
Al centro la quotidianità insieme alla politica e il lavoro, le declinazioni famigliari. Inoltre lo spettro dei sentimenti e degli umani comportamenti, in tempo di guerra, di povertà, di consumo sfrenato o impigliati nel digitale, nei vari contesti materiali, storici e socio-culturali affrontati. Si girano le città africane con lo scrittore nigeriano Chigozie Obioma che interverrà il 19 con Igiaba Scego. Fra gli altri anche il premio «Pen/Faulkner» Atticus Lish con Nicola Lagioia su New York. Molti gli appuntamenti con gli scenari italiani, con Michela Murgia, Stefano Rodotà, Luigi Manconi, Massimo Recalcati, Eleonora Danco, Chiara Valerio, Marco Dambrosio Makkox, Marco Damilano, Andrea Salerno, Antonio Sofi e la banda di Gazebo. Per leggere il programma completo: www.auditorium.com/eventi/festival (Al.Pi.)