L’Inghilterra, terra di Shakespeare e di Byron, sta nel cuore della civiltà europea. Sia pure con uno spirito isolano che guarda il resto del mondo come «noisy neighbour». Ciò che accade là è roba di casa nostra, non sono cose, per noi stravaganti, di un paese esotico.

Capita che un premier per farsi rieleggere promuove un referendum rischioso e dividente per il suo paese, destinato, in partenza, a far prevalere gli umori più superficiali e gretti sulla ragionevolezza e sui sentimenti più profondi e costruttivi. Cerca di volgere a suo favore il malcontento dei cittadini, che la sua politica ha creato, indirizzandolo verso un nemico esterno.

Quando tenta di re-invertire la rotta, è travolto. Un suo ex «compagno di merende» sfrutta il referendum per disarcionarlo e prendere il suo posto, solo per essere buttato giù, a sua volta, dal suo più stretto alleato in questo disegno.

Capita, contemporaneamente, che il capo dell’opposizione venga tradito dai membri del suo «governo ombra», con il suo vice in prima fila, nel momento in cui si appresta a chiedere il conto al premier irresponsabile.

Lo si accusa di atteggiamento tiepido nel referendum. Non è responsabile delle difficoltà del suo partito: ne ha assunto la guida da poco, in un momento molto critico. Tuttavia, la grande maggioranza dei suoi parlamentari lo considera, in contrasto con gli iscritti, ineleggibile come premier. E usando la Brexit come pretesto, lo sfiducia (non potendo dimissionarlo). Conflitti simili richiedono un dibattito congressuale. Non si risolvono con un colpo di mano in un momento di acuta e inedita crisi istituzionale. Invece, è andata in scena una pressione violenta, un abuso psicologico.

Lo scontro fratricida che dilania i due principali partiti inglesi, in un clima di guerra funesta tra epigoni, diventa più comprensibile se lo si mette a fuoco nel partito laburista. Pochi anni fa questo partito ha permesso a due fratelli di farsi reciprocamente fuori nello scontro per la leadership. È andato dritto alla sconfitta. Il patire dovrebbe far apprendere, ma i laburisti inglesi non leggono più Eschilo.

Esperire non insegna se si vive in tempi in cui «far esperienza» diventa difficile. I traumi sono rimossi e possono solo ripetersi.

La differenza tra sovrano legittimo e usurpatore è chiara in «Macbeth» e la crisi politica trova una soluzione positiva. In «Amleto», come in «Coefore», il confine tra il legittimo e l’illegittimo è incerto – perché la regina ha sposato l’assassino del re – e l’evoluzione degli eventi è catastrofica.

La crisi di legittimazione delle istituzioni nella nostra «Polis» è un problema enorme: chi potrebbe definire il referendum che ha portato alla Brexit legittimo o illegittimo? La forma fagocita la sostanza e la questione è, di fatto, indecidibile.

Se la «relazione coniugale» – le relazioni di desiderio e la fecondità degli scambi – non regge, i figli sono illegittimi: Polinice e Eteocle sono entrambi usurpatori. Come Sofocle rende evidente in «Antigone», cercare di risolvere la ferita dell’eros – l’unico campo in cui gli esseri umani agiscono in modo etico, propriamente politico – con l’autorità fondata sull’arbitrio, apre nel cuore della vita della città un vuoto incolmabile.

Separare ciò che del passato è vivo da ciò che è morto, ciò che dà forza all’esperienza trasformativa da ciò che la intralcia come corpo inerte, l’amore che riconcilia dall’inimicizia perenne, è la lezione (inascoltata) lasciataci in eredità dal grande tragico.

Un lavoro di lutto che marcisce, come il corpo di Polinice, nelle fogne a cielo aperto che infestano la vita politica.