Resterà impressa nel ricordo di tutti quelli che erano lì (anche io, perché sono membro della giuria internazionale) la sessione finale del Tribunale Permanente dei Popoli riunito a città del Messico dal 12 al 15 novembre con il titolo «Libero commercio, violenza,impunità e diritti umani dei popoli. Capitolo messicano»: per l’orrore e la pena provata nel sentire direttamente dalla voce di tre compagni di scuola dei 43 ragazzi desparecidos della scuola normales di Ayotzinapa il racconto dettagliato di cosa è accaduto quel 26 settembre. Quando anni di massacri si sono condensati in poche ore di barbarie.

Nell’enorme teatro dell’Università, la famosa Unam, affollato dei rappresentanti di più di mille comitati di base che per 3 anni hanno preparato la documentazione per il giudizio (cinquecento denunce dettagliate), si è fatto un silenzio assoluto. Fra i partecipanti anche molti familiari degli analoghi e altrettanto impuniti delitti precedenti con fra le mani i cartelli coi nomi dei loro congiunti scomparsi o ammazzati. Solo nello stato di Guerrero, in tre anni, 17 assassinati, 30 scomparsi nel nulla (di cui altri 2 normalistas), fra loro militanti di organizzazioni ecologiste, contadine, giornalisti.

Gli ultimi 43 sono solo la punta dell’iceberg, l’ultimo scandalo che per l’impegno di questi comitati ha finalmente bucato il silenzio dei media nazionali e internazionali. Uno dei ragazzi di Ayotzinapa che parla è indio e lo rivendica con orgoglio: «Le scuole normales – ricorda – sono una vecchia istituzione creata negli anni successivi alla rivoluzione, con l’intento di alfabetizzare e aiutare a migliorare le tecniche agricole i figli dei contadini. Oggi queste scuole – dice – sono in miseria, perché non vengono più finanziate, mangiamo quello che coltiviamo noi stessi nei campi della scuola, ma non basta a pagare gli insegnanti. Oggi ancora il 20% della popolazione di Guerrero è analfabeta. La nostra lotta contro questo degrado è stata definito dalle autorità “delinquenza organizzata”». Per dire che dunque era normale che 43 studenti fossero ammazzati.

I ragazzi annunciano che dal giorno successivo inizieranno a marciare da punti diversi del territorio messicano, ogni colonna intitolata a una delle 43 vittime, e arriveranno alla capitale il 20, il giorno, nel 1910, in cui ebbe inizio la leggendaria rivoluzione messicana. Per chiedere giustizia.

Mi sono trovata ancora lì, a Città del Messico, quando è arrivata una folla immensa, tantissima che si è unita da ogni regione agli studenti. Lungo il percorso, a bordo di camion e di vetture fermate all’ingresso dell’autostrada e pregate di offrire un passaggio, erano stati accolti da grandi manifestazioni di solidarietà, molto grossa quella promossa nel Chiapas dagli zapatisti. Alla Unam si era svolta nei giorni precedenti una straordinaria assemblea con i rappresentanti di tutti gli atenei per dichiarare lo sciopero di tutte le università del paese. In sciopero anche i Trabajoderes de l’education. Gli slogan: «la Costituzione è morta», «insurrezione del popolo».

La prova di forza di Peña Nieto

La capitale era blindata dall’alba, tutti i musei e i palazzi pubblici chiusi, posti di blocco lungo i viali che portano all’aereoporto. Una prova di forza del presidente Peña Nieto, che non ha saputo dire altro in questi giorni se non che le manifestazioni avrebbero dissuaso gli investitori stranieri, solo qualche frettolosa parola per i 43 desparecidos, nulla sulla evidente connivenza delle autorità nel massacro: non possono sparire 43 corpi senza la collaborazione della polizia e dell’esercito. Così come non è possibile non venga data una spiegazione per il fatto che nella ricerca dei corpi dei ragazzi, portata avanti da familiari e compagni, si sono rinvenute una incredibile quantità di fosse piene di cadaveri. Un enorme camposanto clandestino, dove giacciono i corpi ormai inceneriti di contadini, donne, militanti delle organizzazioni ecologiste e per i diritti umani, sindacalisti,giornalisti, migranti.

«C’è più che una buona ragione per accusare i presidenti del Messico, da Carlos Salinas de Gotari fino a Enrique Peña Nieto, di crimini contro l’umanità, genocidio, deviazione del potere». A dire queste parole, presentando la sentenza finale, è stato monsignor Raul Vera, vescovo di Santillo, anche lui un giurato del Tribunale. Che tanto per chiarire ha aggiunto: «E in conseguenza del Nafta (il Nord American Free Trade Agreement ) che è stato smantellato lo stato e si è criminalizzata l’economia. Vorrebbero che morissimo in silenzio come i lebbrosi, che il Messico fosse popolato da fantasmi e da schiavi, che vanno a estinguersi nelle caverne per far sparire i propri cadaveri».

Monsignor Vera è un sacerdote di prima linea, nella sua diocesi lontana ha creato un rifugio per i migranti, che a decine vengono falcidiati dai trafficanti mentre tentano di varcare la frontiera con gli Stati Uniti: solo negli ultimi anni 72 vere e proprie esecuzioni a San Ferdnando Tamaulipas, 43 decapitati abbandonati lungo una strada a Monterrey, 18 cadaveri nei pressi di Guadalajara, 23 gettati da un ponte a Nuevo Laredo, a pochi passi dal confine. E migliaia di bambini, che tentano da soli la fortuna, e però vengono catturati e rinchiusi in prigione: quasi 25.000 nel Messico, 50.000 negli Stati uniti.

È una bella storia quella di monsignor Vera che per tre intensi giorni ho avuto seduto accanto: molto tempo fa era stato mandato nel Chiapas a frenare il vescovo ribelle di san Cristobal, e invece è lui che è diventato anche più ribelle, tanto è vero che ora l’hanno confinato in estrema periferia.

Che fine ha fatto la Rivoluzione?

Cosa è diventato il Messico del XXI secolo? La Rivoluzione, che pure è ricordata da tutte le strade della città che ne portano i nomi più significativi (compreso quello di Garibaldi), dal grande e fortissimo murales di Rivera che tutt’ora decora il palazzo del governo allo Zòcalo, che è ancora parte della liturgia ufficiale dello stato, è stata da tempo rinnegata. Ma fino agli anni ’80 restava nell’identità di ogni messicano l’orgoglio forte per quella straordinaria epopea contadina e per la Costituzione del 1917 che per prima inserì i diritti sociali fra le proprie norme e subordinò il diritto di proprietà alla sua funzione sociale. Oggi il Messico è diventato invece un paese stravolto da una conquista americana così pesante come non c’è stata altrove. Le stupende rovine Maya di Tulun sembrano Disneyland, all’entrata i soli ristori Sturback e Subway, difficile trovare traccia di una piccola impresa locale. Anche il prestigio che il paese si era conquistato per la sua politica estera indipendente è ormai passato remoto.

L’ironia è che il Messico compare fra i paesi di successo: il sacro Pil segna un significativo aumento. E gli economisti sembrano appagati. Solo che il 40% è da attribuire al narco traffico, calcoli seri indicano una quota per un totale di 35 miliardi di dollari. Altri 22 sono rappresentati dalle rimesse dei dodici milioni di messicani emigrati, 10 negli Stati uniti. Queste cifre spiegano anche perché il governo non intende combattere seriamente la rete criminale della droga: non solo per la corruzione che è ormai penetrata in tutti i gangli dell’apparato istituzionale, compreso, aihmé, il Partito Repubblicano Democratico, che solo anni fa aveva animato qualche speranza. È così perché senza il narcotraffico nell’economia si aprirebbe un buco, il famoso Pil crollerebbe.

Petrolio e narcotraffico

E poi c’è un’altra ragione che consiglia di conservare il settore: nel Messico ci sono potenziali giacimenti di petrolio e di gas che potrebbero garantire agli Stati uniti l’autonomia dal rissoso Medio Oriente, del nemico Venezuela e della potente Russia. Il governo di Peña Nieto sta vendendo tutto, una vera controrivoluzione rispetto alle storiche nazionalizzazioni operate da Lazaro Cardenas negli anni ’30. Il narcotraffico è presente con un controllo capillare soprattutto negli stati prospicenti il Golfo del Messico, tutt’attorno a Vera Cruz, il centro delle perforazioni in atto. Agli acquirenti è stata promessa la totale acquiescienza della zona, e è anche a questo fine che la rete dei commercianti di droga, uno stato nello stato, sono indispensabili. Come è stata possibile questa degenerazione, proceduta a ritmo galoppante negli ultimi decenni?

Cavia di globalizzazione. Fino al Ttip

È che il Messico ha fatto da cavia alla globalizzazione. È qui, già nel 1994, che è stato varato il Nafta, Nord American Free Trade Agreement, capostipite dei Trattati di liberalizzazione degli scambi e degli investimenti, che da allora si è tentato di introdurre in altre parti del mondo: nel ’97 con l’Ami (Accordo multilaterale sugli investimenti, promosso dall’Ocse), battuto dalla prima opposizione dei movimenti no global (fu chiamata la prima guerriglia on line). Poi, cioè ora, con il Transatlantic Trade and Investments Partnership fra Stati uniti e Ue e l’analogo Trattato transpacifico.

Il Messico sono più di vent’anni che sperimenta questo genere di trattati, più grave qui che altrove, fra l’altro per l’evidente squilibrio fra la fragile economia del paese e quelle dei suoi partners, gli Stati uniti e il Canada; e un accordo che per di più ha amputato il Messico dalla cooperazione cui storicamente sarebbe stato chiamato, quella tentata in America latina con Alba e Mercosur. I danni del Trattato sono così evidenti e presenti nella coscienza popolare che non c’è stata testimonianza che non l’abbia indicato come causa prima della degenerazione del paese.

A sentir denunciare il processo distruttivo della Costituzione – 220 decreti di riforma, 122 imposti dal Trattato – che hanno colpito soprattutto gli articoli 3 (educazione pubblica), 27 (privatizzazioni, vittima anche l’ejidal, le terre comuni, un cardine della società messicana), 123 (diritti dei lavoratori), il potere assoluto conquistato dal suo presidente, le sue leggi elettorali che garantiscono la conservazione del potere, viene da pensare che il Messico non sia il nostro passato, ma rischi di essere il nostro futuro ove il Ttip dovesse esser approvato. Perché induce un’economia disembedded, estrovertita, un modello competitivo calato dall’alto, un corpo estraneo, che non distrugge solo diritti e esseri umani ma anche valori, modi di vita, quanto rende vitale una società. L’obiettivo essendo uno sviluppo selettivo, che include, omologandola, solo una sottile fascia della società, rigettando la maggioranza in una sorta di apartheid.

Un processo particolare

Di tutti i 35 processi celebrati dal Tribunale Permanente – che fu inventato ai tempi della guerra del Vietnam da Bertand Russell per emettere un giudizio privo di valore giuridico, ovviamente, ma di valore etico, di denuncia all’opinione pubblica, e che fu poi ripreso in mano da Lelio Basso – questo messicano ha avuto un carattere particolare.

Si è infatti trattato di uno spazio di incontro, perché ha aperto un processo comunicativo, ha realizzato un apprendimento reciproco, si potrebbe dire che ha creato un diritto partecipato.

Dal 21 ottobre 2011 fino a questa udienza finale se ne sono tenute ben 10 preliminari, ognuna su un tema specifico, e altrettante ancora prima. Centinaia sono stati i testimoni e anche in questa fase finale ad assistere sono venuti in tantissimi, un pubblico eterogeneo, di contadini, studenti,giuristi, intellettuali, moltissime le donne. Dalla sala ogni intervento salutato dai vecchi e nuovi slogan delle lotte popolari.

Questi giorni di collera collettiva e di mobilitazione in cui il Tribunale è stato celebrato segnano forse una ripresa di iniziativa, un battesimo per gli studenti che sembrano essersi improvvisamente svegliati. Non c’è ancora un movimento organizzato e tantomeno un partito di sinistra in grado di raccogliere le energie. Ma migliaia di comitati di base che potranno forse trovare la strada per «rifondare i Messico», come è stato detto da molti e anche dalla sentenza finale. Di rifondarlo c’è proprio bisogno: basti a provarlo il duetto fra l’ex presidente Calderon e l’attuale Peña Nieto: il primo ha accusato il secondo di aver truccato la cifra degli assassini verificatisi durante il suo mandato,per aver arbitrariamente declassificato delitti dolosi a delitti colposi, così facendo apparire il suo record di «soli» 27.000 contro il suo di 35.000.
Una bella gara. Di cui va specificato che i femminicidi si allineano su una media di cinque al giorno.