Si è chiuso ieri nella Repubblica dominicana il V vertice della Celac, la Comunità degli Stati latinoamericani e caraibici che comprende tutti i paesi americani tranne Usa e Canada: il primo dell’era Trump. Il summit si è aperto martedì con un minuto di silenzio in omaggio al leader cubano Fidel Castro, scomparso il 25 novembre dell’anno scorso. Il presidente dominicano Danilo Medina lo ha ricordato come uno dei principali artefici della Celac, nata nel 2011 a Caracas dallo sforzo congiunto di Fidel Castro e Hugo Chavez.

In merito a Cuba, la Celac ha ribadito la condanna del blocco economico imposto dagli Usa e ne ha chiesto la fine «senza condizioni», insieme alla restituzione di Guantanamo, trasformata in base navale statunitense e luogo di tortura. Trump ha preannunciato che contro «il terrorismo» non si farà scrupolo di applicare la tecnica di tortura del waterboarding e che Cuba deve ridursi a più miti consigli.

In merito al Venezuela, si è confermato l’appoggio al dialogo tra il governo Maduro e l’opposizione (sotto l’egida della Unasur e del Vaticano). Si è respinto il decreto di sanzioni emesso da Obama, confermato per un anno e rafforzato dai propositi bellicosi della nuova amministrazione nordamericana per bocca del segretario di Stato Rex Tillerson, ex capo della Exxon Mobil. Il dibattito su Caracas è durato ore per l’opposizione dei paesi come il Paraguay: il cui governo è frutto del golpe istituzionale contro Fernando Lugo e che ora ha trovato appoggio nella mutata condizione politica in Brasile e in Argentina.

Il vertice, che si è svolto nella località turistica di Punta Cana, ha discusso di sicurezza alimentare, disarmo nucleare, genere e conquiste delle donne, difesa dell’ambiente e lotta alle disuguaglianze. Ha condannato «la criminalizzazione dei migranti», ma senza attacco frontale a Trump. «Condividiamo una visione integrale della migrazione internazionale – dice il documento conclusivo – in un’ottica di difesa dei diritti umani che respinge la criminalizzazione della migrazione irregolare, così come ogni forma di razzismo, xenofobia e discriminazione contro i migranti».

I paesi progressisti sono in allarme per la nomina di Rex Tillerson, per il via libera alle trivellazioni selvagge e al fracking, ma non rimpiangono gli accordi economici neoliberisti come il Nafta, che il «protezionismo» imperialista di Trump vorrebbe rinegoziare. In questo contesto si legge invece l’assenza del presidente messicano Enrique Peña Nieto, che ha addotto «motivi di agenda interna». Il Messico, che ha firmato il Nafta nel 1994, è rimasto solo a rinegoziare il trattato di libero commercio con gli Usa dopo l’abbandono del Canada. Nieto incontrerà il suo omologo Usa martedì.

A fronte della nuova situazione proveniente dagli Usa, Medina, che ha trasferito la presidenza pro-tempore al Salvador, ha invitato i paesi del blocco regionale a sviluppare ulteriormente gli spazi per l’integrazione sul piano commerciale, tecnologico, produttivo e la libera circolazione delle persone. All’elezione di Trump ha fatto riferimento anche la Segretaria esecutiva della Cepal, Alicia Barcena. «L’integrazione ora è più preziosa che mai», ha detto illustrando le proiezioni economiche per il prossimo anno e il rischio per le conquiste ottenute.

Nella regione, la povertà è passata dal 28,2% al 29,2%, gli indigenti da 70 milioni sono diventati 75 milioni. L’economia crescerà dell’1,3%, ma sta aumentando anche il numero dei disoccupati, e i maggiori salari decisi in certi paesi non reggono gli alti livelli di inflazione.