Ascanio Celestini, attore, scrittore e regista, viene dalla borgata di Casal Morena, alla periferia sud-est di Roma. Ha cominciato la sua carriera di narratore scavando con occhio da antropologo nella memoria e nelle storie orali.

Da qualche anno ha piantato il radar sulle periferie metropolitane, raccontando le storie della gente che vive ai margini della città. Il suo ultimo film, uscito l’anno scorso, si intitola «Viva la Sposa».

Lo abbiamo incontrato per chiedergli come osserva, dal suo punto di vista, il tracollo della sinistra, l’abbandono delle periferie da parte delle forze eredi del Partito comunista, le mutazioni in corso a Roma.

«Fino ad alcuni anni fa c’era un vincolo ideologico tra gli elettori e gli eletti – dice Celestini – L’elettore si sentiva rappresentato perché votava un’insieme di idee delle quali l’eletto era portavoce e attuatore. Quelle idee non erano generali e buone per tutti. Nel caso del Pci, ad esempio, si trattava di una visione del mondo che puntava a trasformarlo radicalmente. Per questa trasformazione tutti erano chiamati a partecipare e a discutere. Questo accadeva soprattutto nelle sezioni che si trovavano ovunque e soprattutto nelle periferie».

E poi, cosa è accaduto? Quando comincia la crisi?

È accaduto che a partire dagli anni Ottanta la situazione è cambiata: da una parte il legame tra elettore ed eletto è diventato virtuale, dall’altra il Partito comunista ha definitivamente abbandonato l’idea di cambiare il mondo preferendo la prospettiva di governarlo. Dunque è diventato sempre più difficile distinguere tra partiti di destra e di sinistra.

La mancanza di spazi comuni, pubblici e condivisi nella città è tra i temi dei tuoi ultimi lavori. Non so se te ne sei accorto: la vittoria del Movimento 5 Stelle a Roma non ha avuto festeggiamenti di piazza. Un timidissimo applauso al comitato elettorale nell’immediato e poi una festa privata, a inviti, in un teatro nel centro. Non è strano, per un partito che si definisce «di cittadini»? E soprattutto, non ti pare che questo denoti ancora una volta la nostra allergia agli spazi pubblici, aperti?

Il M5S riesce a portare in piazza molte persone ma ha bisogno di qualcuno che le organizzi. Non è un partito che fa cortei o manifestazioni spontanee, la sua è una ritualità che somiglia di più alla convention.
Il tuo nuovo spettacolo va in scena proprio a Roma (oggi all’Auditorium, ndr). Parla di un «povero cristo» metropolitano. Che genere di miracoli occorrerebbero per la Roma dispersa, abusiva, clandestina?
Il settimo municipio, quello nel quale vivo, ha più di trecentomila abitanti. Firenze ce ne ha pochi di più, ma già Ferrara ne ha meno della metà. E ancora di meno Pisa. Allora mi chiedo: com’è possibile gestire Roma lasciando a municipi grandi come città solo una piccola parte di autonomia? E poi i territori dovrebbero avere una serie di spazi pubblici nei quali si fanno continuamente attività, che siano frequentati dagli abitanti e ciò dovrebbe accadere soprattutto in periferia. Uno spazio che conosco bene, il teatro biblioteca del Quarticciolo, è chiuso da mesi, ma la sua riapertura è vitale: quello potrebbe essere uno dei tanti spazi pubblici sempre attivi.

Qualche giorno fai hai chiesto pubblicamente alla nuova sindaca di Roma cosa intende fare per la cultura, sottolineando come il concetto di «legalità» non sia sufficiente e anzi rischi di travolgere esperienze culturali formalmente «illegali». Tu che cosa le suggeriresti?

Il teatro del Lido di Ostia è stato occupato due volte e oggi è un esempio di attività culturale e di scelte condivise col territorio. Anche il teatro Valle è stato occupato ricevendo attenzione e sostegno internazionali. Trovo che sarebbe sciocco e pericoloso pensare che le palazzine abbandonate da anni che comitati di cittadini recuperano e mettono a disposizione di chi è senza casa siano solo espressione di illegalità. Lo stesso vale per i centri sociali che colmano un vuoto avvertito soprattutto nelle periferie.

C’è un balconcino che affaccia sui fori dal quale i sindaci di Roma si sporgono assieme ai loro ospiti. Se avessi la possibilità di condurre la nuova giunta in un luogo emblematico di Roma, per fargliela osservare da una prospettiva differente, che luogo sceglieresti e perché?

Potrebbe visitare il Cie di Ponte Galeria, per esempio. O il carcere di Regina Coeli o di Rebibbia. Oppure i campi nomadi. Se nessuno deve restare indietro, bisogna cominciare dagli ultimi.