Nello sguardo di Louis-Ferdinand Céline, che era quello di uno gnostico o forse di un cataro, la pésanteur e la grace, sordida opacità e leggerezza lievitante, si spartivano equamente il campo della percezione: da un lato lo investiva il peso di un mondo asservito alla carne, agli appetiti elementari (gli stessi che murano il fosco orizzonte del Voyage o di Mort à crédit) dall’altro lo smaltiva uno stile pulsionale ma stilizzato al ritmo dello spasmo interiore, quasi una musica dell’essere, sussultante e compulsiva, portata ai limiti della gratuità. Infatti, per autoassolversi, Céline giurava di non avere idee e si vantava altresì di una sua invenzione esclusiva, l’emozione stilizzata in pagina, la petite musique, la danza in prosa. È noto che a Parigi, negli anni trenta, si appostava nella scuola di danza di Madame Alessandri come un Degas vizioso, dove oggetto della sua scopofilia era il corpo delle giovanissime ballerine, solo linee incise e muscoli vibranti, come è noto che elesse a donne della propria vita due danzatrici di plastica eleganza, prima l’americana Elizabeth Craig, cui è dedicato il Voyage, poi Lucette Almanzor detta Lili, che gli sarà vicino da compagna/moglie/musa negli anni della guerra, della prigionia in Danimarca e nell’esilio terminale di Meudon.
Nell’interregno fra Elizabeth e Lili (il che significa fra il successo clamoroso del Voyage, 1932, e la pubblica infamia di Bagatelle per un massacro, il suo vomito antisemita del 1937) Céline ha rapporti amicali, sentimentali e carnali con un cospicuo numero di donne e ne reca ampia traccia il volume Lettere alle amiche (a cura di Colin W. Nettelbeck, Adelphi, «Piccola biblioteca», pp. 257, euro 15.00) che esce in italiano nella splendida versione di Nicola Muschitiello, un poeta già allievo di Guido Neri e rinomato traduttore fra gli altri di Baudelaire. Sono circa centoquaranta missive indirizzate a una decina di corrispondenti, un microuniverso cosmopolita di donne in genere più giovani di lui che ha appena valicato i quarant’anni, il dottor Destouches, medico nella banlieue rossa di Clichy, che ancora stenta a firmarsi in privato Céline. E fra costoro spiccano: Erika Irrgang, studentessa tedesca e futura scrittrice; Lucienne Delforge, pianista di caratura internazionale, giovanissima, l’unica forse che gli abbia suscitato qualcosa di simile all’amore nel senso corrente; Evelyne Pollet, giornalista e scrittrice di Anversa, una sua fan, e però di vena intimista, che nel dopoguerra ritrarrà dal vero la loro relazione nel romanzo Escaliers; Karen Marie Jensen, ballerina danese, sua eterna confidente nonché tramite bancario dei diritti d’autore depositati, in lingotti d’oro, a Copenaghen, dove Céline verrà arrestato nel dicembre del ’45 per l’accusa di collaborazionismo; infine colei che è cifrata nel libro con «N.», un’ebrea austriaca, ginnasta dal fisico scultoreo, legata agli ambienti della psicoanalisi ed in particolare ad Annie, l’ex moglie di Wilhelm Reich.
Con rare eccezioni, l’atteggiamento di Céline è costante e per sé tiene la parte di un Pigmalione che prodighi consigli d’ordine igienico e morale chiedendo in cambio affetto e una disponibilità fisica indenne comunque da legami ufficiali o, peggio, da pretese matrimoniali. In altri termini, egli è il cinico che conosce tutto della vita e non si fa più illusioni ma è un cinico che raccomanda alle sue donne (il tono è sempre quello di chi si rivolge a delle protette o a delle elette) un matrimonio borghese e rassicurante il quale garantisca loro un culto spregiudicato del corpo e la piena libertà di goderne. Nella igiene raccomandata dal dottor Destouches non rientrano né il pensiero astratto né la soverchia concretezza di una gravidanza. Questo il consiglio profilattico e ben paradossale che dà ad Erika il 21 giugno del ’32: «Usi tutte le sue armi, tutt’insieme, tutte, il sesso, il teatro, la cultura, il lavoro. Ma si mantenga in salute. Niente amore senza preservativo, ALTRIMENTI DA DIETRO».
Céline, mascherandosi da vecchio inerte e acciaccato, da nichilista cui il futuro è per sempre ostruito, non lesina rilievi sul presente e tende a usare le sue donne (pari a chiunque altro, sappiamo dall’epistolario) come specchio ustorio e barra d’appoggio per riflessioni che soltanto nei libelli o nei romanzi verranno totalmente stilizzate: alla Pollet, chiedendole riproduzioni di Bosch e di Brueghel, raccomanda di attenersi nello stile a un «tono irresistibil»”, a «N.» confessa interessi freudiani e domanda una copia di Trauer und melancholie, alla Jensen, reduce da un viaggio negli Stati Uniti all’inizio del ’37, comunica di essere passato dalla Scuola di Balanchine e ribadisce la passione rapinosa, quasi una coazione voyeuristica, per le ballerine: «Lì sì che ci sono belle donne! Oh! Oh! Una meraviglia! Che agilità! Che miracolo! Proprio al limite estremo dello spirito! La raffinatezza del corpo in maniera assoluta!». Ogni altro rilievo, ogni notizia concernente la letteratura, nel prosieguo di quella che ormai è una carriera, rimane desultorio o sullo sfondo, e infatti si pronuncia en passant anche su argomenti ideologici e politici (più che altro per compatirsi e autoassolversi) così sbadatamente accostati che il carteggio, ad esempio, con «N.» viene chiuso da una gaffe a dir poco criminale: nel febbraio del ’39, alla notizia della morte del marito di lei, un ebreo annientato nel campo di Dachau, il firmatario di Bagatelle non ha altro da addurre se non l’elenco delle persecuzioni di cui il medico Destousches sarebbe vittima (da parte di comunisti ebrei, o viceversa) nel dispensario di Clichy, concludendo la lettera con un ineffabile «Vede che anche gli ebrei sono dei persecutori… purtroppo! Qui siamo letteralmente invasi, sa, e per giunta ci esortano apertamente alla guerra».
Va detto per inciso che «N.» si chiamava in realtà Cillie Pam e che il suo nome è già svelato nella biografia Céline. Entre haines et passion di Philippe Alméras del ’94 edita in Italia da Corbaccio tre anni dopo. Qui il curatore Nettelbeck, nella introduzione come nelle note, è invece costretto al silenzio perché Cillie Pam, ancora viva, non intende comparire col suo nome nelle Lettres à des amies che escono da Gallimard («Cahiers Céline», n. 5, una collana di contributi documentari e specialistici) nell’ormai lontano 1979: fatto sta che oggi Adelphi ne propone testo e apparati pari pari ignorando decenni di filologia céliniana e, nel qual caso, il volume complessivo delle Lettres (1907-1961) edito nella Pléiade, 2009, a cura di Henri Godard con la collaborazione di Jean Paul Louis. Un simile e piuttosto discutibile anacronismo editoriale non toglie che Céline rimanga Céline specie se doppiato da un autore del rango di Nicola Muschitiello, appunto un Céline dell’eterno femminino, l’astuto cascamorto, il guardone, l’uomo della assoluta pesantezza che scruta e allucina nel corpo femminile, nella sua stilizzazione più compiuta, l’incarnazione della musica. O, meglio, di una utopia artistica finalmente libera dalla legge di gravità, dal peso delle cose e degli esseri in terza dimensione.
Poco dopo il Voyage, mettendo mano alla farsa grossa dal titolo L’Eglise, Céline vi aveva introdotto il passaggio, autoriferito, che vale una poetica e suona più o meno in questo modo: «Ah Ferdinand! finché vivrete, voi andrete tra le gambe delle donne a chiedere il segreto del mondo!