È la prima volta che Latif al-Ani (Karbala, Iraq 1932, vive a Baghdad) visita Venezia: non era mai stato in Italia. È piuttosto emozionato per la sua partecipazione alla mostra Invisible Beauty, curata da Philippe Van Cauteren, che dà il titolo al padiglione dell’Iraq, organizzato dalla Ruya Foundation for Contemporary Culture in occasione della 56/ma Biennale di Venezia. Un po’ come quando nel 2004, tre anni dopo aver dato il suo archivio all’Arab Image Foundation di Beirut, scoprì per caso che il giornale che era solito acquistare era andato esaurito per via del supplemento con le fotografie di una Baghdad d’altri tempi che – come gli disse il giornalaio – erano state scattate da un certo «al-Ani».

Latif al-Ani, Stolen head that was not retrieved, Hatra  1960 c (Courtesy of the Artist and the Arab Image Foundation)

Alle pareti del salone al primo piano di Ca’ Dandolo, nei 37 scatti in bianco e nero – datati tra la fine degli ’50 e la metà gli anni ’60 – cogliamo un’atmosfera che più che essere nostalgica è quasi surreale, con antiche rovine circondate dal deserto e personaggi in abiti occidentali, la veduta aerea della moschea di Mirjan a Baghdad, la vita quotidiana proiettata in un progresso illusorio… Ma non c’è solo l’Iraq che Latif al-Ani attraversò dal Kurdistan a Bassora, avendo lavorato per le riviste Ahl al-Naft, IPC e successivamente New Iraq. Alcune immagini rappresentano la memoria di viaggi all’estero: Cairo, Baalbek, Berlino, Damasco e anche Chicago, dove il fotografo iracheno fu invitato nel 1963 ad esporre le fotografie del suo paese in una personale che da Washington girò per altre città americane. Allora, come oggi, il suo sguardo profondo non si lascia sfuggire nulla di ciò che lo circonda.

Ha iniziato a fotografare negli anni ’50, apprendendo le prime nozioni tecniche a Baghdad da un fotografo ebreo. Il clima che si respirava all’epoca in Iraq era di apertura?
Sì, certo, era una società molto aperta e accogliente. Vivevamo uno accanto all’altro, non c’era differenza tra le comunità. Nissan, questo è il suo nome, aveva lo studio in Mutanabbi Street, vicino al negozio di mio fratello. Era un fotografo di ritratti che usava il treppiedi e il panno nero. Ero ragazzino, avrò avuto 13 o 14 anni e mi piaceva molto seguire le fasi del suo lavoro.

Latif al-Ani, Latif al-Ani (Courtesy of the Artist and the  Arab Image Foundation)

Come si è sviluppato il suo interesse per la fotografia fino a diventare una professione, o meglio la sua «identità sociale», come leggiamo nell’intervista di Tamara Chalabi della Ruya Foundation for Contemporary Culture?
Non so se sia stata proprio la mia identità sociale. Io fotografavo per hobby, per vedere quello che succedeva nel mio paese. Riprendevo la gente, le situazioni, i luoghi. Il mio primo incarico ufficiale per la rivista Ahl al-Naft fu nel 1954, quando Jack Percival che non era solo il mio capo da cui ho imparato la tecnica, ma un amico, anzi un vero e proprio padre spirituale, mi mandò a coprire l’inaugurazione del British Agricultural and Industrial Show di Baghdad alla presenza di Re Faisal II.

Usava prevalentemente la Rolleiflex 6×6, ma anche la macchina 35mm, prediligendo il bianco e nero. È così?
Sì, ho sempre preferito il bianco e nero, perché permette maggiore libertà nello sguardo dell’osservatore. Ma fotografavo anche usando le pellicole a colori. Nel 1960 ero l’unico che sapeva sviluppare il colore: proprio per questo fui chiamato a dirigere il dipartimento di fotografia del Ministero della Cultura, che allora si chiamava Ministero dell’Informazione.

Nel processo del fotografare, qual era per lei il momento più emozionante?
La camera oscura. Era lì che potevo finalmente vedere quello che avevo realizzato! Ma anche gli incontri con le persone… Lo scatto non era che il momento finale dell’incontro. Ognuno è stato un momento importante di scambio, ovunque sia accaduto. Anche ora, quest’incontro lascerà qualcosa sia a lei che a me.

Dal 1976 ha messo da parte la professione di fotografo, dopo essersi trasferito in Kuwait dove sua moglie aveva ricoperto un incarico di docente. Perché nel 1983, quando è tornato in Iraq, ha smesso definitivamente di scattare?
La situazione era cambiata con la guerra Iran-Iraq e il regime di Saddam. Era troppo pericoloso uscire in strada con la macchina fotografica. Prima facevo anche fotografia aerea: è completamente diverso vedere la terra dall’alto, si ha una sensazione di controllo. Era sufficiente noleggiare l’aereo e salirci sopra, ma all’epoca era diventato del tutto impossibile.

DSC_0466 - Latif al-Ani a Venezia (foto Manuela De  Leonardis)jpg
Nelle sue foto degli anni ’50 e ’60 vediamo un Iraq molto occidentalizzato, profondamente diverso da quello di oggi…
Era effettivamente così. Ecco perché è importante che se ne conservi la memoria, almeno attraverso la fotografia.

Pensa che il petrolio sia stato la fortuna, ma anche la disgrazia dell’Iraq?
(sospira, poi accenna a un sorriso triste). È prioprio così.

Tra i suoi ricordi ce n’è uno a cui è più legato?
Ho milioni di ricordi, ma quello che mi colpisce rivedendo queste fotografie dopo cinquant’anni è il senso di bellezza che emanano. Anche se le guerre, la distruzione, la dittatura hanno trasformato il paese, non è mutata la bellezza dell’Iraq. È questo che vorrei che cogliesse anche chi non c’è mai stato.