Per un’involontaria quanto curiosa coincidenza topografica, l’indirizzo del Museo di Antropologia Criminale Cesare Lombroso di Torino corrisponde a via Pietro Giuria, letterato e poeta ottocentesco. Giuria. Come quella di un tribunale. E fu proprio una giuria torinese a condannare, il 12 ottobre 1926, a cinque anni, sette mesi e quindici giorni di reclusione per truffa continuata, da scontare nel carcere delle Nuove, Cervo Bianco (White Elk), capo di una tribù di nativi americani. Lungo la galleria del Museo, dietro i vetri di una grande bacheca, i visitatori guardano oggi un po’ disorientati il costume di Cervo Bianco: diadema di piume maestoso, tunica bianca ricamata e ornata di frange. Il sotto tunica color arancione, polsini lucenti di bardature dorate, porta sul colletto l’etichetta delle gloriose Galleries Lafayette di Parigi. E allora gli interrogativi si infittiscono. Perché il capo indiano indossava un indumento firmato dai negozi della moda parigina? Gli interrogativi crescerebbero ulteriormente, se il visitatore potesse accedere agli archivi museali. Dentro corposi faldoni sono conservate migliaia di richieste di aiuto economico, tutte indirizzate a Cervo Bianco. Le pance di altri faldoni svelano centinaia e centinaia di pagine divise in colonne, con il nome del questuante (associazione, ente, circolo, parrocchia, semplice ma bisognoso privato…), il suo indirizzo, la cifra stanziata o in corso di stanziamento. Così, parafrasando la manzoniana domanda, viene da chiedersi «White Elk, chi era costui?» E ancora: che ci faceva in Italia, come e per quale ragione ci arrivò, perché finì in una galera sabauda? La sua storia, il capo indiano la raccontò in carcere all’intellettuale antifascista Massimo Mila. Mila la riferì anni dopo a Ernesto Ferrero, attuale presidente del Salone Internazionale del Libro, che ne fece un libro, L’anno dell’indiano, pubblicato da Einaudi. Ma rimase pur sempre una storia sommersa, esaurita dalle cronache dei giornali del tempo. Quel tempo era il giugno del 1924. Il viaggio a ritroso per far riemergere i fatti e ricostruire una personalità che gli epigoni di Lombroso definirono «istrionica, di un mattoide, di un bugiardo patologico», lo sta compiendo, con un documentario in corso d’opera, White Elk. Il pellerossa in camicia nera, un filmaker intorno ai trent’anni, Beppe Leonetti. Alle spalle molte esperienze professionali come montatore, maturate accanto a Nanni Moretti, Alfonso Arau, Guido Lombardi (autore del bellissimo La bas. Educazione criminale), Beppe, durante un viaggio in treno, ha scoperto White Elk leggendo Marcia su Roma e dintorni di Emilio Lussu. Lo scrittore descriveva in mezza pagina la Cagliari di allora, trepidante per l’arrivo di Cervo Bianco. Dal clima di esaltazione generale avevano tratto vantaggio economico i proprietari delle case con le finestre affacciate sul luogo dell’evento, affittate a caro prezzo.

Torniamo al giugno del 1924, seguendo il racconto di Leonetti. L’Italia, strozzata dalle difficoltà economiche, inasprita dal malcontento diffuso verso un fascismo che si avviava a divenire apertamente dittatura, spaventata dalle violenze squadriste e dagli arresti degli oppositori, messa a tacere dalle limitazioni alla libertà di stampa, sta per elencare un altro martire nella lista dei caduti per la libertà. Giacomo Matteotti, rapito il 10 dello stesso mese, verrà ritrovato morto soltanto il 16 agosto, ucciso dai sicari di regime. Ed è a giugno che nel porto di Trieste sbarca Edgar A. Laplante, nato a Rhode Island, Canada, classe 1888. Si dichiara Principe Pellerossa, con il nome di White Elk, in altri casi sarà Tewanna Ray, capo di una tribù di trentamila nativi. È reduce da una tournée europea per promuovere il kolossal americano Covered Wagon, ha trentasei anni, è indubbiamente di bell’aspetto, di professione fa il cantante e ballerino, dichiara illustri trascorsi cinematografici con Rodolfo Valentino in Lo sceicco e I quattro cavalieri dell’Apocalisse. A Nizza ha conosciuto, qualche mese prima, la contessa Amalia e la contessina Antonia Kevenhuller, Da loro, l’invito a trascorrere qualche tempo nella residenza italiana di famiglia. A suo dire, Edgar/White/Tewanna è animato da nobili propositi: il tour costituisce occasione per propugnare la causa pellerossa, per metterla davanti agli occhi e alla coscienza del Vecchio Continente. Da improvvisa folgorazione colpito, Edgar/White/ Tewanna sente l’anelito di libertà che batte nel cuore delle camicie nere, forte come quello del suo popolo. Alle camicie, dunque, si può chiedere di fare causa comune, di schierarsi accanto alle genti oppresse delle praterie del West. A patto di organizzare un viaggio «promozionale» attraverso l’Italia. Uno sforzo che le contesse accettano di finanziare. Il Principe pellerossa si fa garante della restituzione del debito. I beni della sua tribù, oro, petrolio, diamanti, afferma, sono sotto sequestro delle autorità degli Stati Uniti. Dalla Corte d’Inghilterra, lascia intendere, è in corso una trattativa affinché tali beni rientrino in possesso dei legittimi proprietari.

A questo punto, la vicenda impone di chiarire origini e vicende pregresse di Edgar/White/Tewanna. Leonetti risponde da documentato e meticoloso cicerone: «Era figlio di una nativa americana, che muore nel 1904, e di un muratore bianco canadese. Studia canto, e giovanissimo abbandona la casa dei genitori per andare al seguito di una compagnia di teatranti, con cui gira per gli Stati Uniti, arrivando a Los Angeles. Qui, se ne farà vanto più volte, sostiene di aver recitato in Before the Whiteman Came, la prima pellicola che vede la partecipazione massiccia di autentici pellerossa. Ma le scene che li ritraggono sono soltanto scene di massa. Sostiene di aver ricoperto il ruolo di uno dei quattro cavalieri dell’Apocalisse. Ma il primo e il secondo hanno il volto scoperto, gli altri due sono mascherati. La carriera di Edgar si interrompe con lo scoppio del primo conflitto mondiale. La nave da guerra Antille su cui è arruolato viene affondata al largo delle coste della Francia, il soldato Laplante riporta alcune ferite al torace e torna in patria. Poco dopo conosce Berta Thompson, Cascata della montagna nella lingua della tribù Yurok cui appartiene, figlia di Lucy, autrice del libro To the American Indian: Reminiscences of a Yurok Woman (1916). Siamo tra il 1918 e il 1921. I due si sposano, e iniziano a vagabondare per la Confederazione spacciando come medicinale un intruglio a base di olio di serpente e raccogliendo fondi per la Croce Rossa, che intascano allegramente e che saranno fonte di guai giudiziari in alcune città».

La California è il luogo della separazione. Berta si ferma lì, Edgar va a nord, in Canada, Toronto e Halifax, dove indossa per la prima volta i panni di Capo Cervo Bianco, cantante e ballerino. Così lo annunciano i manifesti dei suoi spettacoli, rivolti soprattutto ai bambini. Le ambizioni del Capo puntano, però, assai più lontano, in direzione dell’Europa. Nel 1922 approda da Halifax a Liverpool, dove mette in scena il suo repertorio. L’incontro a Manchester con Ethel Watson, già madre di un bambino, porta a un secondo matrimonio, bigamia troppo difficile da scoprire viste le distanze.

Trascorre poco tempo, ed Edgar si aggrega a una compagnia che proietta in Francia, Germania, Olanda, Belgio, su incarico della Paramount, Before the Whiteman Came. Presentandosi come nativo americano, prima e dopo le proiezioni si esibisce in canti e balli tradizionali. A Nizza, è il gennaio del 1924, incontra, lo abbiamo detto qualche riga più su, le due nobildonne austriache. L’invito a Trieste, prima ospite dell’Hotel Savoia, uno dei tanti e lussuosi alberghi in cui alloggerà, poi l’accoglienza nella magione delle contesse, dove incontrerà anche il rampollo Giorgio, consentono a Edgar/White/Tewanna di completare l’opera. Spalle coperte finanziariamente, salpa a bordo del piroscafo Cimarosa, prima tappa Venezia. Ad attenderlo c’è una vera e propria folla, incuriosita dalle cronache dei giornali che ne esaltano la figura di difensore dei fratelli perseguitati Oltreoceano. Dal balcone della sua stanza all’Hotel Danieli, Cervo Bianco si affaccia e getta manciate di banconote sulla gente che lo acclama. Il copione verrà ripetuto puntualmente ad Ancona, Bari, Brindisi, Catania, Napoli, Roma, Genova, Diano Marina, seguito da visita alla Casa del Fascio, incontro con i gerarchi locali, rilascio di una tessera onoraria del partito, affaccio per l’ovazione pubblica con saluto romano. A Diano Marina, White Elk incontra il conte piemontese Barattieri, che si prodiga per fargli avere un incontro ufficiale con Mussolini. Palazzo Chigi risponde che si può fare, nel mese di agosto. Ma l’incontro salta. Il duce è accorso in Toscana per fronteggiare gli scioperi dei minatori. Neanche con papa Pio XI va meglio. Il pontefice si limita a far recapitare al Capo due foto autografe.

Appuntamenti mancati a parte, la celebrità del Principe pellerossa è ormai al culmine. A Firenze viene trasferito di nascosto dall’Hotel Baglioni a un altro albergo, per via di un’adunata popolare che la polizia fatica a contenere. E sempre a Firenze, in un ristorante, la sua fama di mecenate porta una tavolata di una trentina di persone a chiedergli di pagare il conto. Il Principe soddisfa la richiesta senza fare una piega. Durante una visita alla fabbrica fiorentina di ceramiche Richard Ginori, le maestranze gli regalano un busto che riproduce le sue fattezze. Il generale d’aviazione Ceccherini gli racconta dell’impresa dannunziana di Fiume. White Elk torna a Trieste, dove affitta un idrovolante e ripete il volo di D’Annunzio. Nel dicembre del 1924 arriva a Torino. E qui inizia la sua parabola discendente, quasi una soap opera nella cronaca di Leonetti: «Cervo Bianco sta male, ha contratto la sifilide, ed è reduce da un litigio furibondo con Giorgio, il rampollo della casata Kevenhuller. Giorgio, appena tornato dal suo abituale safari in Africa, ha scoperto che il patrimonio familiare è stato azzerato dai prestiti al presunto nativo americano. In sei mesi è svanito un milione di lire». Tanto per avere un termine di paragone: negli anni Venti, un docente universitario percepiva uno stipendio mensile di 300 lire, «Giorgio caccia di casa il protetto di Amalia e Antonia, che a Torino soggiorna una settimana presso l’Hotel Turin Palace, per poi venir ricoverato in ospedale. Lì un funzionario del ministero degli Interni gli consegna un foglio di via. Il posto più vicino dove andare è la Svizzera, ma la malattia lo costringe di nuovo in un letto dell’ospedale di Bellinzona. Al capezzale si presenta Antonia. Ha scoperto tutto. Il millantato recupero del patrimonio tribale tramite il Principe di Galles è una bufala. La corte inglese nulla sa di White Elk. Parte la denuncia e arriva la condanna del tribunale svizzero: un anno di galera, diagnosi psichiatrica di personalità mattoide» Scontata la pena, Edgar, poiché tale e soltanto tale ormai è, viene estradato in Italia. A Torino l’aspetta un secondo processo, in seguito a un’ulteriore denuncia della contessina. La pena è pesante. Massimo Mila, suo compagno di cella, divide il poco spazio con un uomo che non ha neppure i soldi per comprarsi il tabacco; su iniziativa del direttore delle Nuove, i carcerati fanno una colletta e acquistano un maglione di lana che aiuti l’ex Capo a proteggersi dal freddo; Mila ne ascolta i racconti, forse incredulo, certamente colpito da una figura fuori da ogni schema. Edgar, al termine della reclusione, torna negli States. Si arrabatta con altri piccoli inganni fino alla morte, per infarto, nel 1944, in una clinica di Phoenix, Arizona, la città che ancora oggi accoglie la sua tomba. Qualche anno prima aveva mandato un telegramma al figlio della seconda moglie, che amava profondamente: «Caro Leslie, tuo padre deve andarsene e non tornerà mai più». Berta è sepolta a Eureka, California; Ethel a Manchester, la lapide porta il cognome finto del marito, Tewanna. Beppe Leonetti, una considerazione finale su questo artista della truffa, anomalo Robin Hood che rubava ai ricchi e regalava ai poveri senza tenere nulla per se stesso; su come sia stato possibile che l’Italia del Duce, così tronfia di certezze, abbia bevuto a lunghi sorsi le teorie strampalate di White Elk: «La storia italiana di Cervo Bianco incarna alla perfezione una frase del filosofo Theodor Adorno ‘E poi il culto delle feste in costume sboccò nel fascismo’. I gerarchi erano privi di cultura, vanagloriosi e vanitosi, si riempivano la bocca di parole vuote. Non a caso, Edgar Laplante, negli altri stati europei, si presentava come cantante, attore e ballerino. Ciò che millantava non oltrepassò mai certi limiti, perché lui sapeva che sarebbe stato considerato un ciarlatano». Cervo Bianco, tuttavia e alla fine, almeno uno scalpo lo ha avuto. Quello del cranio ottuso di un regime che, nonostante la pena inflitta al falso Principe, uscì scuoiato dalla lama del ridicolo.