È davvero singolare il percorso di questa straordinaria cineasta, che ci ha regalato uno dei capolavori della storia del cinema: Jeanne Dielman con cui, a soli 25 anni, ha dimostrato di avere una maturità e profondità di sguardo che possono vantare solo i grandi maestri dell’immagine in movimento. Un singolare percorso poiché, dopo aver frequentato l’Anthology Film Archive di Mekas e realizzato una serie di film sperimentali, come Hotel Monterey o La Chambre, entrambi del 1972, decise di orientarsi sempre più verso la narrazione (Je Tu Il Elle del 1974), ma sempre alternando i generi, avendo cioè il coraggio di rinnovarsi continuamente, ibridando sperimentazione, documentario e strutture narrative (pensiamo al mediometraggio Le 15/8 del 1973) e dando vita a esperimenti sempre originali e suggestivi.

Negli anni 2000 la Akerman è poi ritornata in qualche modo alle origini, ovvero la sperimentazione audiovisiva, sollecitata probabilmente da un panorama in mutamento, in cui il cinema si mescolava irreversibilmente alle arti visive. Invitata da Szeemann per la Biennale Arte del 2001, ripropose sotto forma installativa proprio Jeanne Dielman. In questa versione multicanale i monitor trasmettevano una serie ripetuta di gesti e movimenti tratti dalla vuota esistenza quotidiana della protagonista, interpretato da una straordinaria Delphine Seyrig. La visione di Jeanne Dielman in forma spazializzata e non più solo temporale, accentuava così quel senso di straniamento e di angoscia del lungometraggio originario: formidabile mescolanza di cinema-verité e performance attoriale.

Che differenza c’è, in fondo, tra Empire di Warhol e Jeanne Dielman? Due riflessioni sul tempo coagulatosi sulla grana della pellicola. Due modi di pensare la durata come soglia che annulla ogni distanza tra realtà e rappresentazione. Non è vero, come dice Hitchcock, che il cinema è la vita senza i tempi morti. Il prostituirsi occasionale della protagonista per potersi mantenere e non far mancare nulla a suo figlio, è un’attività avvolta dall’insopportabile aura della normalità, ma cela l’horror vacui, da colmare con azioni svuotate di sentimento, fino alle estreme conseguenze. La de-drammatizzazione di Jeanne Dielman è la grande invenzione di questo film. Nel contesto veneziano – la mostra Platea dell’umanità – Akerman si trovava in buona compagnia, insieme ad altri creatori di immagini «borderline», come Atom Egoyan e Juliao Sarmiento o Gianikian e Ricci Lucchi.
Ma realtà la cineasta belga aveva già altre volte «rilocato» i suoi film in spazi museali: il suo doc D’est (1993) era stato installato al prestigioso Jeu de Paume di Parigi (e in altri luoghi espositivi), articolando la visione in più stanze, anche attraverso l’uso di monitor. In quell’occasione lo aveva re-intitolato significativamente Au bord de la fiction, sottolineando così il carattere trans-narrativo del progetto, ma, ancora una volta, anche la trasmutabilità spaziale.

Nel 2003 a Rotterdam, in una delle mostre collaterali del festival del cinema, Akerman presentò De l’autre côté (2002), già allestito a Documenta di Kassel anche se in una versione differente. Come D’Est, anche questo film è un diario di viaggio verso un non-luogo – quello della frontiera (concreta e metaforica): Agua Prieta, villaggio messicano di confine. De l’autre côté, infatti, racconta il dramma degli immigrati clandestini che rischiano ogni notte la vita sognando un’esistenza migliore negli States. Le testimonianze di giovani e anziani, di chi ha valicato il confine e di chi invece è rimasto in Messico, si alternano a lunghe inquadrature del villaggio, mentre, nella parte finale, Akerman filma i clandestini con la videocamera a infrarossi dall’elicottero e conclude il film con una lunga soggettiva dalla sua automobile che ritorna verso il cuore dell’impero – Los Angeles – raccontando la misteriosa scomparsa di una sua vicina di casa messicana. L’installazione riprendeva e articolava su vari schermi in contemporanea proprio quest’ultima parte, dando una forma spaziale alla frammentarietà narrativa.

La stessa frammentarietà dislocata su cinque schermi (sospesi al centro della sala) la ritroviamo nell’installazione Now, inserita da Enwezor nell’ultima biennale veneziana, dunque visibile al pubblico ancora un altro mese. Stavolta non c’è un film monocanale come punto di partenza, ma Akerman ha concepito le immagini unicamente per essere installate. Now in qualche modo sembra dialogare – a distanza di tempo – con De l’autre côté: paesaggi desertici ripresi dal finestrino di un’automobile, che sfreccia veloce, alcuni di di essi in piano ravvicinato, si coniugano a suoni naturali ad altissimo volume, che sfociano in reiterati e assordanti spari ed esplosioni, come se ci trovassimo – ancora una volta – al confine di uno Stato mediorientale in preda a scontri violenti. Una fuga? Un attraversamento? Lo spettatore entrando nello spazio è come frastornato, costretto a un incontro quasi fisico con le immagini in uno spazio piuttosto angusto.

Le derive – spesso nel vero senso della parola – non-narrative di Akerman sono tra le sue cose migliori. I lenti travelling laterali, frontali, in avanti e indietro, circolari, da News from Home (altro capolavoro, datato 1977) a D’Est, da La Chambre a Hotel Monterey, così come l’apparente fissità di tanti piani sequenza, che, in realtà, celano un incredibile moto interiore (sono movimenti interiorizzati) possono essere letti come un continuum che oltrepassa lo spazio e il temporale. Costituiscono un’esplorazione assoluta del reale. Il cinema sperimentale e installativo di Akerman è quasi ipnotico nella sua dimensione esperienziale e immersiva. Un cinema di frontiera (in tutti i sensi) che si è sempre spinto oltre i generi e oltre i bordi dello schermo.