L’«ultima volta» (chi lo avrebbe detto) è stata l’estate, agosto, il Festival di Locarno. In concorso Chantal Akerman presentava No Home Movie, un film intimo, e per lei doloroso al punto che prima della proiezione, minuta sul grande palco ha voluto dire al pubblico che quel film aveva bisogno di pazienza e di disponibilità. No Home Movie come suggerisce il titolo non è semplicemente un film «familiare» anche se davanti all’obiettivo di Akerman c’è sua madre che lei, lo intuiamo soltanto, inizia a filmare probabilmente sapendola malata.

La segue nella casa in Belgio dove è arrivata nel 1938 dalla Polonia, pensavano di essere al sicuro e invece i nazisti poco dopo li hanno raggiunti con il loro piano di sterminio. Ma questo, l’Olocausto, l’essere ebrei come materia fondante una storia familiare che a un certo punto mette da parte la pratica religiosa – il padre della regista non vuole che si seguano più le tradizioni – è solo una delle linee narrative. Prima c’è il rapporto tra la regista e la mamma in cui questo entra, seguendo appunto la necessità di Akerman di «ricostruire» una memoria storica nell’esperienza familiare, ma che è soprattutto tenerezza, amore, con la madre che guarda ancora quella figlia come la ragazza eccentrica piena di idee bellissime e un poco folli.

La donna esce pochissimo, è stanca, il mondo è la voce della figlia con le sue storie, il suo chiederle del passato, la sua ostinazione a scrivere una Storia che la madre invece sembra avere messo un po’ da parte. Le due donne parlano della nonna, che forse aveva un amante, ed è stata una femminista prima del tempo, di altri parenti, altri esili, altre fughe. I tedeschi che si impossessano del Belgio e il padre di Akerman che rifiuta la stella gialla. Poi i ricordi che la madre ha di Chantal, gli occhi blu quando era piccolina che tutti guardavano incantati. Fuori dalle mura familiari ci sono le lunghe fughe di Akerman nel paesaggio sul confine di un deserto, e quelle domande che rimangono sospese. È in questa esigenza di «memoria condivisa» che la regista si mette in gioco, intrecciata a una dimensione amorosa intensa, e commuovente nel gesto di voler trattenere istanti, sguardi, sorrisi, presenza materna. Nello spazio condiviso dell’attesa in cui il tempo cola impercettibile, mentre la madre diventa sempre più stanca e cerca rifugio nel sonno, scorre il movimento della vita.

Negli anni cambiano i rapporti, e cambiamo noi: quale diventa la posizione rispetto ai genitori, e alla propria storia? Nella cucina dall’aria antica, come appaiono spesso le case dei genitori, le due donne scherzano, lasciando intuire discussioni passate, ed è come se la regista dichiarasse il suo bisogno di un riferimento mentre la madre sta andando via; di una dimensione collettiva di appartenenza e di identità condivise in cui ritrovare una parte preziosa di sé, quel trasmettere che esige anche saper porsi all’ascolto. Un grande atto d’amore.