La chiamavano la battaglia dell’etere, delle onde radio: era la guerra artistico/psicologica che i nazisti scatenarono dal 1940 al 1943; il protagonista: Charlie and His Orchestra, un ensemble swing guidato dal sassofonista Lutz Templin e finanziato direttamente dal ministero della propaganda e dal suo responsabile Joseph Goebbels. La storia è incredibile: Charlie and His Orchestra era una big band jazz nata per bombardare attraverso le onde corte gli alleati cercando di minarne il morale e allo stesso tempo di innalzare quello delle truppe dell’asse. A tal proposito una squadra di compositori e musicisti nazisti si mise al lavoro con l’intento di parodiare lo swing statunitense, cooptando classici del repertorio Usa a cui venivano sistematicamente cambiate le parole in chiave antisemita e anti Churchill.

I testi partivano identici agli originali e dopo pochi versi deviavano minacciosamente. In questo modo St. Louis Blues, pietra miliare del repertorio afroamericano, il classico di W.C.Handy, all’improvviso recitava: «Un negro delle banchine di Londra canta ‘Odio vedere il tramonto perché i tedeschi hanno bombardato questa città». Allo stesso modo in You’re Driving Me Crazy, il capolavoro di Walter Donaldson, si canta: «Ecco l’ultimo dolore di Winston Churchill, ‘Sì i tedeschi mi stanno facendo impazzire/Pensavo di essere intelligente ma hanno abbattuto i miei aerei». E ancora: «Gli ebrei sono gli amici che mi sono vicini per rallegrarmi, credimi sono così./Ma gli ebrei sono il tipo di persone che mi feriranno, abbandoneranno e rideranno di me». Oppure So You Left for the Leader of a Swing Band? che già dal titolo diventava So You Left Me for the Leader of the Soviets?.

Tanto per farsi un’idea, ogni mercoledì e sabato alle 21, Charlie and His Orchestra riversava i suoi suoni sul pubblico britannico. Si calcola che il 26.5 per cento dei radioascoltatori britannici abbia ascoltato almeno una volta quelle musiche che arrivavano dalla Germania. Alla voce Karl Schwedler, alias Charlie, che in inglese – ma con un evidente accento tedesco – distribuiva epiteti e insulti. La storia dell’ensemble – le cui musiche erano state raccolte anni fa nel cofanetto Swing Tanzen Verboten! Swing Music and Nazi Propaganda – è tornata d’attualità in Propaganda Swing, produzione teatrale di Peter Arnott in scena in questi giorni in Gran Bretagna. Sul palco otto attori musicisti e tre jazzmen professionisti. Partendo dal presupposto che la musica è fonte di libertà e redenzione Arnott si interroga sul ruolo dei suoni quando scaturiscono da compromessi così perversi. Sono ancora liberatori? Domanda tanto più sentita nel caso di Charlie and His Orchestra che – come sottolineava Michael H. Kater in Different Drummers: Jazz in the Culture of Nazi Germany, il suo saggio del ’92 – «arrivò a rappresentare il fenomeno più bizzarro nella storia della cultura popolare nazista e della propaganda del Terzo Reich».

Non solo: quell’ensemble evidenzia anche il rapporto perverso che il nazismo ebbe con il jazz, da un lato musica degenerata (Entartete Musik) per antonomasia – perché nata in ambito afroamericano e suonata perlopiù da musicisti ebrei – e dall’altro ascoltata in gran segreto dagli stessi gerarchi.

Ufficialmente per i nazisti si trattava di una forma artistica primitiva e depravata. Al punto che dal 1933 alle stazioni radio fu proibita le massa in onda di qualsiasi cosa potesse evocarla. Ai musicisti furono comunicate regole perentorie su come maneggiare gli strumenti per non assomigliare ai colleghi neri americani. In Cecoslovacchia fu emanato un ordine che proibiva «improvvisazioni ritmiche caratteristiche delle razze barbare». In tal senso lo swing era considerato l’abisso degli abissi. In realtà la Germania aveva fino a quel momento sviluppato una passione smodata per il jazz. Nella repubblica di Weimar fu il suono della ripresa economica dopo la sconfitta della prima guerra mondiale, nel 1925 il charleston dominava nelle sale da ballo, ovunque nascevano orchestre, artisti come Paul Hindemith o Kurt Weill incorporavano il jazz nel loro linguaggio, nel 1928 Bernhard Sekles teneva corsi sul jazz (chiusi dai nazisti nel 1933) al Conservatorio Hoch di Francoforte; una forte opposizione al nazionalsocialismo venne proprio dal jazz con la Swingjugend, ragazzi patiti di swing (14-18 anni di media) che a Berlino e soprattutto ad Amburgo si opposero (come gli Zazous in Francia) veementemente al nazismo ma senza risultati (i leader furono spesso internati).

Con l’avvento di Hitler il ruolo del jazz si modifica: bandito (per ragioni ideologiche) e tollerato (per ragioni economiche, di propaganda e a seconda di come spiravano i venti di guerra), si svilupperà tra gli interstizi del regime che non varerà mai una legge specifica anti-jazz. Tanto che negli anni della guerra lampo quando vennero riabilitati i balli swing ci furono orchestre provenienti dai territori occupati che sostituivano i musicisti impiegati al fronte. Insomma i degenerati in genere erano particolarmente apprezzati dai gerarchi che non si limitavano affatto a magnificare la purezza di Wagner, Beethoven, Goethe o Schiller. Al contrario lo stesso Goebbels – un commediografo fallito che si era cimentato anche con un romanzo sperimentale – apprezzava il movimento espressionista nelle sue forme più variegate. Göring, appassionato d’arte, responsabile della spoliazione del patrimonio artistico dei vari paesi occupati, dichiarerà: «È più facile che un artista diventi nazional socialista anziché il contrario».

In questo clima si inserisce il ruolo di Charlie & His Orchestra al cui leader Lutz Templin era consentito di viaggiare in Francia, Olanda e nella neutrale Svezia per recuperare dischi anglo-americani. Gli stessi componenti dell’ensemble – che a seconda delle esigenze belliche (arruolati nella Wehrmacht o nei Waffen-SS Musikkorps) ruotavano spesso, sostituiti da musicisti dei territori occupati come Belgio e Olanda – potevano acquistare 78 giri di contrabbando e sintonizzarsi sulle radio straniere. Ascoltavano e trascrivevano. Realizzeranno oltre 270 pezzi che nel prosieguo della guerra, quando il morale dei tedeschi si farà più scuro, anche i connazionali potranno ascoltare nelle proprie case su concessione di Goebbels (i pezzi si sentono qui: https://archive.org/details/Ww2NaziKarlSchwendlerAkaCharlieAndHisOrchestra3of5).

Se si pensa che i V-disc, i dischi appositamente realizzati per sollevare l’umore delle truppe Usa, esordiranno solo nel 1943 e che il capitano Glenn Miller e la sua Allied Air Force Orchestra allieterà le truppe alleate a partire dal ’42, si capisce il ruolo di Charlie & His Orchestra (già attivi nel 1940) nella guerra dell’etere e nell’ambito della musica come propaganda. Ma non funzionò. Nessun alleato fu mai convertito alla causa dell’asse; gli stessi piloti della Luftwaffe, massimo vanto di Hitler, preferivano sentire gli originali e Miller in particolare che nel ’44 avviò la «German Wehrmacht Hour», una serie di trasmissioni in cui alcuni annunci e alcuni pezzi venivano cantati in tedesco. Mai in quei brani nessun leader tedesco fu denigrato e al contrario la storica annunciatrice Ilsa Weinberger continuava a rimarcare: «Non è meraviglioso sentire musicisti a cui nessuna restrizione è stata imposta? Possono suonare quello che vogliono e rivolgersi a tutti, americani, tedeschi, russi, cinesi, ebrei». Il messaggio era chiaro. Charlie & His Orchestra ebbe anche un altro ruolo, ancora più minaccioso e perverso: era figlia di un’ideologia che utilizzava la musica come forma di potere, controllo e in ultima istanza di tortura. Tanti sono i resoconti della musica nei campi di concentramento, con marce e ritmi che accompagnavano i tempi del lavoro e della morte. A Sachsenhausen chi non marciava e cantava a tempo offriva agli aguzzini ulteriori pretesti per percosse e abusi; a Dachau e a Buchenwald gli altoparlanti vomitavano fino a tarda notte Wagner e i discorsi di Hitler nelle baracche privando i detenuti anche del sonno. A Theresienstadt (Terezín), il ghetto ebreo «modello» al centro della Boemia, la musica ebbe un ruolo determinante e di facciata. Fumo negli occhi per la croce rossa e il resto d’Europa (era colmo di intellettuali e musicisti che daranno vita a quella che è passata alla storia come ’musica della Shoah’) si rivelerà una sosta temporanea verso il campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau dove moriranno 84mila persone (tra uomini, donne e bambini) provenienti proprio da Theresienstadt.

Nel 1936 dopo la nascita di nuovi campi di concentramento, la riorganizzazione e l’allargamento di strutture pre-esistenti divennero sempre più frequenti le orchestre interne. Erano presenti a Sachsenhausen, a Buchenwald e ad Auschwitz. Qui ce n’era una di soli fiati (120 musicisti) e un’altra, sinfonica, composta da 80 artisti. Il repertorio includeva marce, musiche da ballo, canzoni popolari, da operetta, da film, opere di compositori come Beethoven o Wagner e jazz. Nel campo principale (Auschwitz 1), il Blocco 24 ospitava al piano inferiore l’orchestra dei detenuti e al piano superiore il bordello del campo. La sera il Blocco si trasformava in un perversissimo jazz club con i capi delle SS che chiedevano ai musicisti di intonare classici proibiti del jazz Usa e ragtime come Dinah o I Can’t Give You Anything but Love. Rispetto al passato i musicisti non eseguivano solo su richiesta, avveniva che suonassero e componessero anche spontaneamente (erano «premi» per musicisti e detenuti per stimolare lavoro e produzione nei campi»). In questo modo la musica diventava una forma di resistenza e sopravvivenza; eppure lo status di musicista scatenava spesso nella mente degli artisti laceranti tensioni; da un lato godevano di trattamenti privilegiati che potevano renderli invisi agli altri detenuti, dall’altro erano «oggetti» nelle mani degli aguzzini che li utilizzavano per intrattenimenti privati o per sonorizzare i vari eventi/rituali di morte nei campi: occasionalmente le orchestre accompagnavano l’entrata nelle camere a gas; le loro musiche accoglievano i nuovi detenuti mistificando il tragico e finale destino a cui stavano per andare incontro. Questi sensi di colpa non abbandoneranno mai i musicisti dei campi trasformandoli in complici/vittime di un sistema di potere e terrore a cui la musica forniva un’insana colonna sonora. In sostanza siamo all’alba della musica come tortura psicologica, forma di invasione di spazi fisici e mentali che si riproporrà decenni dopo a Guantanamo e Abu Ghraib. Un esempio è emblematico: durante le feste natalizie le orchestre suonavano Stille Nacht (Astro del ciel) per i detenuti malati che invano chiedevano di morire in silenzio. Mai più violati dai tanti Charlie sempre in agguato. Ieri come oggi.