Lo spirito di Chaplin e dei Soliti ignoti arriva alla Mostra con La Rançon de la gloire (Il riscatto della gloria) di Xavier Beauvois, l’assistente di Manoel de Oliveira, regista di Nord, Le petit lieutenant, Uomini di Dio. Lungometraggio francese di coproduzione svizzero belga ha tra i suoi sostenitori i fratelli Dardenne oltre che il figlio in persona di Charlot, Eugène. Dalla memoria emerge il fatto di cronaca raccontato nel film, il furto della bara di Chaplin a scopo di riscatto, avvenuta nel 1977 pochi giorni dopo la sua morte, ma certo in quegli anni c’erano ben altre notizie da seguire.

Eddy (Benoit Poelvoorde) esce dal carcere accolto dal vecchio amico Osman che lo ospita nella roulotte vicino alla sua baracca pur disapprovando la sua condotta, poiché un tempo, quando arrivò dall’Algeria come clandestino fu lui a salvargli la vita. Osman (Roschdy Zem l’attore di L’autre coté de la mer di Dominique Cabrera, miglior attore a Cannes per Indigènes di Rachid Bouchareb) fa il manovale occasionale, alleva una figlia con scrupolosa attenzione mentre la moglie si trova in ospedale per una malformazione all’anca che dovrà operare. Eddy non ha lavoro, è fantasioso e scanzonato e prende a cuore il problema dell’amico, trovare i cinquantamila franchi per l’operazione della moglie.

Dalla televisione che si è procurata chissà come, apprendono la notizia della morte dell’attore avvenuta a due passi dalla baracca, nella villa di Vevey sul lago di Ginevra, e la straordinaria ricchezza del defunto mette in moto la mente di Eddy, già ben allenata in carcere. I suoi amici calabresi già lo facevano, quindi perché non tentare? Infatti dopo la risposta negativa della banca in una scena che ricorda Benigni alle prese con il direttore della filiale, a quale amico ricco ci si può rivolgere? Proprio a Charlot che era amico dei poveri, dei diseredati e dei senzatetto, solo lui può aiutarli..

Il piano è pronto e l’intreccio è costruito sulla distanza caratteriale dei due protagonisti, la comicità di Poelvoorde in evidenza rispetto alla serietà dignitosa messa a dura prova di Zem, la totale incapacità a procedere nel piano (in francese si direbbe che sono «pieds nickelés», proprio come il titolo di una rivista che usciva negli anni Settanta. Più la solerte attenzione del segretario dell’ attore, Peter Coyote in gran forma (nel cast Chiara Mastroianni è una bella circense, non mancano le luci della ribalta e la regista Nadine Labaki –Caramel – la moglie). Una commedia un pizzico nera, appena appena di denuncia, molto più giocata sui toni del divertimento, della recitazione, un occhio alla commedia all’italiana. Eugène Chaplin che è stato fondamentale per la realizzazione (nel film ci sono anche brani di Charlot) ha detto: «All’inizio non vedevo cosa ci fosse di tanto buffo nel rubare una bara, poi ho visto il talento e ho detto: perché no?».

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Con il secondo film in concorso della giornata ritorniamo al cinema iraniano: Ghessha (Tales, racconti) di Rakhshan Bani-Etemad, la «signora del cinema iraniano» è un viaggio a incastro per le strade di Tehran dove con ritmo sostenuto si alternano diverse storie caratterizzate dalla povertà, dal disagio, dai problemi spesso irrisolvibili.

Come in un film a episodi entrano ed escono dal campo pensionati disperati ma indomiti, operai disoccupati per la chiusura delle fabbriche, burocrati inetti, ragazze drogate, donne picchiate, giovani problematici cacciati dall’università per aver manifestato, tassisti occasionali E anche un cineasta che cerca di riprendere un po’ tutto, quando non gli sequestrano la camera (film realizzato grazie alla famiglia cinematografica iraniana, c’è scritto nei titoli).

Bani-Etemad è stata la prima cineasta iraniana, destinata dapprima all’insegnamento, ma dopo studi di cinema e il lavoro in televisione, premiata nel ’91 come miglior regista iraniana per Nargess, premiata a Mosca per Under the Skin of the City e prima regista ad aver affrontato il tema della guerra Iran-Iraq. Anche in Ghessha le sue due tematiche principali, i problemi sociali, la povertà causata ora dalla disoccupazione e dai prezzi aumentati del 40% e il ruolo fondamentale della donna nella società emergono in primo piano: proprio dalla platea veneziana la regista lancia un appello perché venga tolto l’embargo al suo paese.

Nel film vediamo centri di accoglienza che accolgono donne da proteggere da mariti violenti, eroinomani da disintossicare (sono centri per uomini e donne che ci sono in tutto il paese, dice, per fronteggiare le emergenze e portare aiuto al popolo) e soprattutto donne di tutte le età che si fanno carico oltre che dei problemi sociali, anche di quelli familiari, spesso oggi le uniche a portare a casa un salario. «La posizione di emancipazione della donna nella società iraniana resiste», sottolinea la regista, «nel processo di istruzione, vita sociale e politica è comunque vincente. Ci sono due realtà parallele: da una parte le difficoltà che incontra, dall’altra la sua resistenza».

Il film racconta in maniera fluida la molteplicità di queste vicende, proprio come in un libro di racconti, con la consistenza di un tessuto inestricabile. E torna come interprete della nuova generazione problematica Peyman Moaadi in una intensa scena finale che sintetizza la sensazione che proviamo attraverso questa cinematografia di un paese che si arrovella in maniera dialettica senza poter trovare soluzioni concrete. Intanto Ghessha è stato realizzato dopo una lunga preparazione, in soli 17 giorni e la regista sa già che sarà distribuito nelle sale, il vero problema dei registi iraniani. «Altrimenti», dice con sicurezza, «i miei film non li farei partecipare ai festival».