Finlandese, quarantenne, sax tenore, Timo Lassy si mette in luce sia con band quali U-Street All Stars e Five Corners Quintet sia scrivendo musiche per il cinema, benché sia con il proprio gruppo la Timo Lassy Band, da dieci anni in qua a ottenere un progressivo successo completato ora dalla nuova raccolta Love Bullet.

Timo ci parli subito di questo nuovo lavoro discografico? 

È il quinto lavoro a mio nome, sono riuscito ad avere la stessa line-up originale degli album, perché è fondamentale lavorare con Teppo alla batteria, Antti al basso, Abdissa alle percussioni e Giorgios all’organo e al Wurlizer. Ci sono anche due ospiti speciali in alcuni brani che veramente espandono il suono nella direzione giusta: due bei giovani talenti come Jukka Eskola alla tromba e Panu Savolainen al vibrafono. Rispetto al mio precedente In With Lassy del 2012, i brani contenuti in Love Bullet lasciano decisamente più spazio alla scrittura che all’improvvisazione…

In tal senso hai di proposito omaggiato certe atmosfere tipiche della Blue Note Records? 

Di sicuro il sound riflette i miei ascolti di album jazz degli anni Cinquanta-Sessanta. Questo è lo stile che rappresenta un’epoca verso cui nutro una grande passione. Ma per me non si tratta di un mero tributo, certo, abbiamo preso un paio di cose qua e là dal passato, ma spero che gli ascoltatori avvertano, in generale, qualcosa di nuovo e fresco. Prendi ad esempio il brano Undecided e ti è subito chiaro con che feeeling suona la band!

Ascoltando la tua musica, sembra che tu sia nato con il jazz, che lo abbia ascoltato fin da piccolo, è così? 

Mio papà suonava un po’ il clarinetto e il sax alto. Credo che uno dei miei primissimi ricordi d’infanzia, riguardo al jazz, sia proprio mio padre con il suo clarinetto a casa nostra d’estate: un tardo pomeriggio, le blue notes, una jam session molto rilassata. In casa, già da ragazzino, provavo grande piacere nell’ascoltare i dischi di Charlie Parker e di Dexter Gordon presi dalla collezione di mio padre .

Hai citato Parker e Gordon due sassofonisti, ti ispiri a loro o hai altri modelli? 

La lista sarebbe infinita, posso citarti Sonny Rollins, Stanley Turrentine, Gene Ammons, Ike Quebeck, Coltrane, Cannonball Adderley, David Fathead Newman…

Ovviamente fra i tuoi preferiti non ci sono solo sassofonisti…

Duke Ellington, Count Basie, Horace Silver, Miles, Ella, Clark Terry, Chico Hamilton, Art Blakey con i Jazz Messengers… Buddy Rich e tutti i batteristi molto swinganti, ma ce ne sono molti nel periodo d’oro del jazz…

Tra gli album che hai registrato quale sinceramente ami di più? 

Beh , naturalmente, il mio primo lavoro è importante (The Soul And Jazz Of Timo Lassy) e l’ultimo (Love Bullet), che ho curato moltissimo. Ma quello che amo di più non sapevo nemmeno fosse stato registrato! È successo dopo l’uscita di In With Lassy che risale al 2012, quando il mio team di produzione più o meno segretamente registrò i concerti di quel periodo. Avevo già i miei sospetti, appena avevo visto un registratore Nagra in giro, ma non sapevo che il nastro stava girando. E sono proprio io con la mia band dal vivo, nudo e crudo, proprio come piace a me! L’album si chiama Live With Lassy ed è uscito nel 2014.

Così significa per te essere musicista nel campo del jazz?

Anche se suono il sassofono, ossia uno strumento solista melodico, mi viene ancora da dire che è sempre una questione di ritmo. Tutti sul palco devono sapere come suonare e sostenere il groove. Ci sono talvolta brani più lenti o intimisti, ma il ritmo e lo swing devono portare a compimento non solo la melodia (è molto importante), non solo l’assolo, non solo uno o due canzoni, ma l’intero set (album o dal vivo). Naturalmente ci sono ogni tanto dei picchi e un climax assoluto, ma occorre mantenere il meccanismo ben oliato, set dopo set, concerto dopo concerto. Ho visto Lou Donaldson suonare il sax all’età di 85 o giù di lì; aveva ancora idee e i concetti-chiave e soprattutto i sentimenti!

Come giudichi la situazione attuale per quanto concerne il jazz?

A volte sembra che ci sia una sovraesposizione di musica e di spettacolo in generale. Anche le persone più giovani in particolare sembrano consumare tutto in pochi attimi a ritmo vertiginoso. Se la canzone o il film non è subito okay – «not so good» dicono gli americani – non riescono ad andare oltre i venti secondi, si preme un tastino per scegliere altro. Anche la passione per il suono acustico potrebbe venir meno a causa delle nuove modalità di ascolto (apparecchi mobili di vario genere) che non necessariamente riescono a sostenere la buona musica. Ma ci sono ancora, e spero esistano sempre, persone che amano il jazz, il rock, la classica e apprezzano chi crea veramente la musica. E noi artisti dobbiamo essere responsabili verso noi stessi e verso il pubblico.

Esiste secondo te un finnish jazz o un’identità del jazz finlandese? 

Il genere in Finlandia è molto diffuso grazie al supporto efficace di un sistema didattico-formativo. Non posso dirti «la mia musica non è finlandese» (essendo nato qui), ma forse posso dire che non è il più tipico esempio di finnish jazz dal momento che è più bluesy e groovy rispetto al «suono nordico» in generale. Il jazz del resto è arrivato in Finlandia molto più tardi rispetto a molti altri paesi nordici. C’è stata la guerra, momenti molto turbolenti e quindi per recuperare il ritardo, abbiamo dovuto fare passi da gigante. Ma, come in molti altri campi, i finlandesi tendono a essere seri e a rispettare il duro lavoro. Direi che questo atteggiamento di fare le cose ad alto livello potrebbe simboleggiare la comune identità del jazz finlandese.
Stai lavorando a nuovi progetti?

Diverse cose e nel frattempo sto girando l’Europa con Love Bullet. Ma non mi fermo qui e con la band stiamo lavorando già a nuovi materiali…