Una volta il dissenso veniva espulso (o radiato) dal partito ma se il partito è ridotto a un residuo della rottamazione, se la “ditta” è una malconcia dépendance del Palazzo, non c’è bisogno di riunire nessuno e neppure di un voto per eliminare i disturbatori. Basta un doppio giro di corda, è sufficiente una bella stretta alle briglie e il cavallo continuerà a galoppare verso il traguardo del partito della nazione.

Così il segretario del Pd ordina di sostituire dieci deputati della minoranza dalla commissione parlamentare chiamata a chiudere la discussione sulla riforma elettorale, e sprona le truppe a marciare («avanti su tutto») sul dissenso. Disponendosi, in questo caso nella veste di presidente del consiglio, a chiedere il voto di fiducia sulla legge elettorale per evitare l’odiata «palude».

Mettere alla porta non uno ma dieci parlamentari (tra i quali due ex presidenti del partito e un ex segretario), dopo una veloce riunione dell’ufficio di presidenza del gruppo, può stupire giusto i malcapitati deputati. Che di botte ne hanno ormai prese tante, una ogni “penultimatum”, senza mai restituire neppure «un colpo secco» come suggeriva Massimo D’Alema nel ruolo di ultimo giapponese smarrito nella rigogliosa giungla renziana.

I parlamentari sono stati messi bruscamente alla porta della commissione da un vice-capogruppo-vicario, Ettore Rosato, assurto all’onore delle cronache come sostituto. Un cinquantenne ragioniere, bancario, assicuratore, consigliere dc, consigliere Margherita, parlamentare, e ora vice presidente vicario dopo le dimissioni del bersaniano Speranza. Un politico esemplare del nuovo corso pronto a combattere le durezze della logica («la sostituzione dei deputati serve a costruire le condizioni per lavorare uniti, senza ledere il diritto di critica»), sicuramente in buona compagnia di chi, come Gennaro Migliore, matricola piddina, è ricercato dalle telecamere certe di andare a colpo sicuro («il primo a chiedere di farsi sostituire è stato Cuperlo»). Tipico gesto di solidarietà tra compagni.

L’atto di purificazione della commissione parlamentare è plateale, provocatorio. Renzi esibisce il bastone perché si sente forte, imbattibile, senza rivali, «un uomo solo al comando» come scrivevamo già all’indomani del trionfo alle primarie del 2013, un titolo fortunato che Renzi si è incaricato di confermare, senza se e senza ma.

Le opposizioni parlamentari, che ora annunciano la replica dell’Aventino, lo lasciano indifferente, e quanto ai dissidenti, dopo avergli fatto ingoiare il rospo gigante del Jobs Act (veleno puro sulle radici stesse di un impegno politico di sinistra), è convinto che un altro amaro boccone non farà la differenza. Evocare, come fa Rosy Bindi, il misconoscimento delle «radici uliviste» suona come quel grido di dolore dei contadini che nelle piane pugliesi combattono l’epidemia della Xylella.

Oltretutto, è facile sparare contro chi si agita tanto, anzi contro chi «ha voglia di cagnara», come abbaia il mite vicesegretario Guerini, non per una questione di alta democrazia (oltre al Jobs Act, tutto l’impianto della riforma costituzionale è passato liscio) ma per una battaglia agevolmente traducibile come questione di bassa cucina politica (i posti in lista).