Nella sezione Orizzonti del Festival di Venezia spicca un cortometraggio che addensa in una ventina di minuti e in modo originale, l’ultimo capitolo dell’”Ulisse” di James Joyce, “Penelope”, meglio conosciuto come il monologo di “Molly Bloom”. A realizzarlo, con la produzione di Jacopo Quadri e Ubulibri, Vivo Film e In between Art Film e al di qua e di là della macchina da presa è l’attrice e regista Chiara Caselli: bolognese, quasi trent’anni di carriera, film con Maselli, Antonioni, Del Monte, i fratelli Taviani, Gus van Sant, Bechis. Protagonista del film “maledetto” di Francesco Nuti, “OcchioPinocchio”. Con l’ancor ed erroneamente sottovalutato “Dove siete? io sono qui” di Liliana Cavani vince il Nastro d’Argento. Con il corto “Per sempre”, in concorso a Venezia nel 2000, debutta nella regia. Quello che segue è il racconto per tappe dell’avvicinamento al teatro e poi al cinema di una delle più grandi narrazioni del ‘900, tenuto a pochi giorni dal debutto al Lido previsto il 1 settembre (Palabiennale, ore 16,30). Dunque, all’inizio ci fu: “Piera degli Esposti e la sua “Cara Molly”. Ho visto per la prima volta il personaggio di Molly Bloom in scena a Bologna nell’interpretazione di Piera degli Esposti. Avevo dodici anni. Mi ci portò mia madre che non faceva che ripetermi “ma capisci?”. La cosa mi colpì e molto se penso che nello stesso periodo ricevevo la prima macchina fotografica che poi diventò, quando iniziai ad esporre circa otto anni fa, una delle mie professioni”.

 

Dalle note di regia:”Molly è un tesoro inesauribile, un regalo per un’attrice. Vitale nella sua solitudine, profondamente e carnalmente donna, immagine universale dell’umanità tutta fatta di miseria, nobiltà e sogni”. Qui c’è l’attrice, regista, fotografa. Tutto ciò sembra affrancare dal tempo, ma non dalla durata …

In un certo senso direi di sì. E c’entra Molly. Infatti, misi da parte, ma non del tutto,  lo spettacolo che avevo visto da ragazzina e a cui non sapevo dare un senso, evidentemente stava maturando in me fino a quando ne compresi e molto tempo dopo che quel mi stava dicendo: il suo flusso di parole era la cosa più vicina alla vita con la sua alternanza di luoghi e situazioni che stai per l’appunto vivendo mentre forse stai pensando ad altro. e che altro! Con il banale e il sublime che si sfiorano nei pensieri fino a toccarsi. E’ Molly è una donna libera che è tradita e al contempo tradisce, che pensa al suo amante e al suo piacere personale, ma anche a cose del suo quotidiano, più spiccio, che divide con il marito Leopold, che dorme proprio lì accanto a lei.

 

Sei anni fa circa hai messo in scena Molly Bloom, non si erano ancora liberati i diritti di rappresentazione, nonché di traduzione, da chi arrivò la proposta?

Era il 2010, mi arrivò una richiesta dal Giardino della Filarmonica di Roma e curiosa coincidenza la partecipazione mi fu chiesta dalla persona che era stata la direttrice dello spettacolo di Piera degli Esposti. Senza dubbi dissi va bene il monologo di Molly? Presi in mano il libro e fu molto duro.

 

Era la traduzione classica di Giulio De Angelis che frenava o c’era altro?

Ricordo che fu molto lungo l’adattamento a cui lavorai. Durò suppergiù tre mesi. Lo lessi in inglese e lo confrontai con la traduzione, l’unica di allora, di De Angelis, quanto mai benemerito, ma risaliva agli anni cinquanta-sessanta ed era un po’ consumata tanto che la lingua meravigliosa di Joyce, così attaccata alla vita, tradotta perdeva tutte le associazioni e le sue forme d’espressione. Tutto si rallentava era, insomma, tutto così lento.

 

Fu portata lo stesso in scena e …

Ho provato e debuttato. Con i diritti bloccati, l’unica possibilità che avevo di portarla in scena, pur conoscendo la parte a memoria, era nella forma di lettura scenica. Vestendo di nero m’allontanai dalla figura di Molly; bastò una lampadina in scena e mi consegnai alla forza di Joyce e del suo personaggio.

 

Non passano che due anni e si liberano i diritti e arrivano prima la magnifica traduzione “gergale” di Enrico Terrinoni e poi quella d’autore di Gianni Celati e porti “Molly” a Spoleto, al Festiva dei due Mondi.

E’ bellissima la traduzione di Terrinoni. Per il nuovo adattamento uso quella di Celati. Arrivo a lui attraverso Luca Buelli, è di Bologna come me e produce i documentari di Celati. Celati lo conosco attraverso le fotografie di Ghirri; la fotografia in copertina a “Narratori delle pianure” è tra le mie preferite. S’avvicinava Spoleto, il libro non è uscito ed io devo smontare il testo, la traduzione finché non mi arriva tutto l’Ulisse in una scatola rossa che è tra le mie cose più care.

 

Folgorante debutto a Spoleto, poi incontri pubblici con Celati, “memorabile” quello al Salone dei Libri di Torino e s’affaccia prepotente il desiderio di portare Molly al cinema.

Mi è sembrato lo sbocco naturale di un lavoro lunghissimo, condensato in 5 giorni di riprese, ma preceduto da un intensissimo lavoro con la macchina fotografica, con l’appoggio di uno storyboard che univa alle immagini degli acquerelli, ed uno studio incessante sulle possibilità di tradurre in cinema, cioè visivamente la lingua interiore di Molly; unire l’oggettività del personaggio con la sua vita interiore, la più fluida del mondo.

 

Qual è stata la modalità di lavoro e di ripresa?

Come dicevo ho lavorato moltissimo con i miei collaboratori per comporre e realizzare la traccia visiva del film; Lydia Giordano è stata preziosissima per come mi ha aiutato nei disegni e negli acquerelli. Davanti alla macchina da presa, sapendo che dovevo dare tanto, tantissimo, il 200% di me stessa, essendo anche dall’altra parte, ero talmente sicura del personaggio, dello studio che avevo fatto su di lei che potevo, una volta dato il ciak e d’accordo con Matteo Cocco, che mi seguiva alla fotografia, improvvisare, senza essere presa dal panico. Pensavo di agire come un architetto, dicevo le fondamenta sono salde e sicure, ma facciamo in un altro modo la costruzione.

 

Rilevante è anche l’uso della musica …

Ho agito per istinto sulla scelta della “donna è mobile”. Joyce dice che Molly canticchia un po’. La popolarità del brano e la contemporaneità con lei mi ha portato a pensare che poteva conoscerla. Il valzer, amato alla follia, l’ho scelto per la forza del sentimento che esprime; dopotutto il valzer è la musica del cinema. E Molly, mentre si vede allo specchio piccola e fragile, buffa, persino infantile parlando del ragazzo che ha visto addirittura undici anni prima, immaginando il tradimento con lui.

 

E allo stesso tempo riacquista quella forza e libertà che la contraddistingue …

… e che è molto complessa: è tradita dal marito, ma ha appena trascorso il pomeriggio con l’amante. Le due cose non si parlano e non c’è guarda caso contraddizione. E’ bellissimo … libera sì … come nel finale nel ricordo al giorno della corsa sfrenata di ritorno dal mare in cui Leopold le chiese la mano. Disse di sì ed è lì, si vede, con lui, con il suo primo amore.

 

Il marito come ancora di salvezza?

L’immaginazione la salva e devo dire che salva molti di noi dalle piccolezze della vita concreta. La lavatrice che non è partita, l’amante che vuoi vedere, la mamma che non sta bene e i figli che devi andare a prendere. C’è un pieno di immagini. Carmelo Bene diceva: una donnetta, miseria e nobiltà.