Domani, l’America latina ricorda «l’altro 11 settembre»: il golpe in Cile contro il governo di Salvador Allende. Quel giorno di 41 anni fa, il generale Augusto Pinochet, sostenuto dai padrini Usa, spazzò via il triennio allendista e una possibile trasformazione politica e sociale, incompatibile con gli interessi di Washington.

L’opinione degli Usa sull’elezione di Allende risulta da una conversazione, desecretata, tra l’allora Segretario di stato, Henry Kissinger, e il direttore della Cia, Richard Helms: «Non permetteremo che il Cile finisca nel canale di scolo», dice Kissinger. «Sono con lei», risponde Helms. È il 12 settembre del 1970. Tre giorni dopo, il presidente nordamericano, Richard Nixon (quello dello scandalo Watergate) ordina alla Cia di «far piangere l’economia» cilena: guidando il sabotaggio dei grandi gruppi industriali, nazionali e internazionali, appoggiando il blocco dei trasporti, favorendo la fuga degli investitori e facendo mancare il credito estero.

Fiumi di dollari (169 milioni tra il 1946 e il ’72) continuarono però ad abbeverare le Forze armate cilene, addestrate nelle scuole nordamericane. Nel ’72, gli aiuti militari erano rimasti l’unica forma di assistenza fornita da Washington, che si oppose anche alla possibilità che il Cile rinegoziasse il debito estero. Un piano lungo tre anni. Il golpe aprì la strada a una dittatura feroce e longeva, durata ufficialmente fino al 1990, ma che ha lasciato nel paese un’eredità mefitica, difficile da cancellare.

I tentativi della destra di omaggiare l’ex dittatore Augusto Pinochet e i suoi scherani non sono mai venuti meno, e la società cilena è ancora attraversata dalle cicatrici profonde di quel periodo. La difficoltà con cui il governo di Michelle Bachelet – tornata alla presidenza a dicembre dell’anno scorso con la coalizione Nueva Mayoria – sta mettendo mano a quell’eredità pesante, sono lì a dimostrarlo.

Molti politici in carica durante la dittatura sono d’altronde ancora in scena: rappresentanti storici del partito di estrema destra Union Democrata Independiente (Udi) come Sergio Fernandez, ex ministro degli Interni di Pinochet; Andrés Chadwick, ministro degli Interni dell’ex presidente-miliardario, Sebastian Piñera che, da giovane, fu tra coloro che giurarono di «salvare la patria» durante il cosiddetto atto di Chacarillas del 1977: un consesso di mezzanotte simile a quello messo in scena dai nazisti. E molti altri ancora.

L’organizzazione Ciudadanos por la Memoria ha presentato alla Camera un progetto per abolire tutti i simboli che esaltano il golpe pinochettista. Si spera in un pronunciamento in prima istanza da parte della commissione per i Diriti umani del Parlamento, preludio alla discussione in aula. Nell’organizzazione vi sono anche militari democratici, che rigettano la persistente attitudine di un importante settore delle Forze armate, tuttora convinto che i golpisti «salvarono la patria dal pericolo comunista». Un’idea che viene da lontano. A sostenerla, allora, un campo di interessi che ha coagulato i ceti borghesi e possidenti, strati sociali intermedi, tecnocrati e intellettuali, convinti che il socialismo bloccasse la crescita e lo sviluppo.

Un’idea dura da vincere, nonostante appaia evidente chi abbia pagato i costi delle politiche neoliberiste dilagate nel segno dei Chicago Boys di Milton Friedman. Costi sociali giganteschi e una repressione feroce, che, secondo i dati ufficiali, si è lasciata dietro 3.200 morti e oltre 38.000 detenuti e torturati. Furono quelli gli anni in cui venne formata la Dina, la polizia segreta direttamente controllata da Pinochet. Gli anni dell’operazione Condor, il piano criminale per eliminare gli oppositori ovunque si trovassero: deciso dai vertici delle dittature di Cile, Argentina, Brasile, Bolivia, Paraguay e Uruguay, con il supporto di Fbi e Cia, e con un principale snodo nella zona del canale di Panama. Il capitolo cileno sta tutto dentro la partita del grande Novecento: la lotta senza quartiere tra le forze della reazione e quelle del socialismo.

Una partita che continua ancora, seppur in forme diverse e che si riflette nel bilancio, tutt’altro che riconciliato, sugli anni della dittatura. Per il blocco sociale che la sostenne e per i suoi eredi odierni, fu un fondamentale momento di sviluppo che modernizzò il paese. Una rivoluzione nella struttura produttiva che proiettò il “laboratorio-Cile” nelle alte sfere del mercato capitalistico globale. Non a caso, quando Pinochet lasciò la presidenza dopo aver perso il plebiscito del 1988, aveva ancora il gradimento del 43% dei cileni. Un progetto di lunga gittata, che ha distrutto il settore statale privatizzando le imprese nazionali, contraendo la spesa pubblica e distruggendo i servizi sociali, e lasciando campo libero alle multinazionali. La dittatura non era destinata a una parentesi, ma a dettare i parametri di una “democrazia” sotto tutela. Un’impalcatura che ingabbia ancora il paese nonostante gli anni della concertación. I movimenti e le organizzazioni popolari lo hanno ricordato scendendo in piazza durante la presidenza Piñera.

Ma anche il sacrificio di Salvador Allende, che scelse il suicidio durante il colpo di stato, è ben vivo nella memoria del paese e del continente. E il costo pagato da quella breve stagione serve da monito alle nuove esperienze di governo in America latina: quelle che hanno preso il potere in modo democratico, e che scommettono sul Socialismo del XXI secolo. Il Venezuela, innanzitutto. Le analogie tra i piani destabilizzanti messi in atto contro Caracas e quelli contro Allende, tornano nei discorsi e nelle analisi.

Ad agosto, gli eredi di Pinochet che siedono in parlamento dietro i banchi dell’Udi hanno innalzato cartelli per chiedere: «Libertà per Leopoldo Lopez», il leader venezuelano di Voluntad Popular dai trascorsi golpisti, in carcere per aver diretto oltre due mesi di devastazioni e violenze contro il governo Maduro dal febbraio scorso.

Il vento di una nuova solidarietà, che pervade gran parte dell’America latina, ha portato in piazza i movimenti sociali anche per sostenere il diritto a uno sbocco al mare per la Bolivia di Evo Morales (una storica questione aperta, insieme a quella che riguarda il Perù). E il Latinoamerica socialista ha sostenuto la lotta dei nativi Mapuche che, in Cile, lottano per rientrare in possesso dei loro territori ancestrali. Una questione che, dopo le decisioni del Parlamento e le aperture di Bachelet, sembra avviarsi sui binari adeguati.

Domenica scorsa, migliaia di cittadini hanno manifestato per i diritti umani e per ricordare le vittime della dittatura. Vi sono stati scontri con i carabineros. I manifestanti – familiari delle vittime, artisti, associazioni, parlamentari, politici e la Gioventù socialista del Cile (Js) – hanno denunciato l’impunità ancora imperante. Hanno lanciato la campagna “Verdad y Justicia ahora”. Alcuni magistrati – sostenuti dalla presidente Bachelet, che ha perso il padre e ha subito carcere e torture durante il regime di Pinochet – accompagnano le ricerche dei familiari delle vittime.

Tre ex ufficiali dell’esercito sono stati accusati per il sequestro e l’omicidio del cantautore Victor Jara, ucciso cinque giorni dopo il golpe in uno stadio di Santiago che oggi porta il suo nome. Il Servizio medico legale cileno (Sml) ha comunicato di aver scoperto resti umani in una tenuta vicina alla caserma militare di Tejas Verdesal, dove vennero imprigionate oltre 100 persone subito dopo il colpo di stato.

E continuano le agitazioni dei settori popolari che premono per un cambiamento di sostanza. Il 4 settembre, i lavoratori hanno sfilato per strade della capitale. I rappresentanti della Central Unitaria de Trabajadores (Cut) hanno chiesto a Bachelet che venga discusso al Congresso il progetto di riforma del lavoro: «Occorre superare il modello economico basato sull’accumulazione di capitali che non considera lo sviluppo del popolo che lavora», ha detto Barbara Figueroa, presidente della Cut. Il 4 settembre è una data simbolo per il movimento sindacale, perché ricorda l’elezione di Allende a presidente del Cile.