«L’ho sempre ammirato» dice Quentin Tarantino di Sylvester Stallone, «Rocky è stato un film fondamentale per me quando l’ho visto a 12-13 anni. Ricordo di aver fatto il tifo per lui agli Oscar quell’anno come per uno che era riuscito ad ‘imbucarsi’ a Hollywood. Poi in qualche modo sarebbe riuscito anche a me con Pulp Fiction». Parliamo di Rocky e di outsider hollywoodiani con Tarantino che a Los Angeles comincia la promozione del suo ultimo film, Hateful 8.
Rocky girato in 28 giorni per meno di 1 milione di dollari era un prototipo di cinema indie entrato nell’olimpo della Academy a furor di popolo. E Stallone un raro esempio di cineasta «popolare», un autore lowbrow che emergeva alla fine del decennio degli «easy rider e raging bulls», gli iconoclasti della Hollywood “controculturale”, con un film di forza istintiva. Era vent’anni prima che Tarantino rompesse a sua volta gli schemi con le sue decostruzioni post-narrative. Per coincidenza, Stallone torna a vestire i panni del suo eroe proletario in Creed mentre allo stesso tempo Tarantino prepara l’uscita di Hateful 8 – il secondo film di un ipotetica trilogia «western» americana.
Come Django, il revenge movie che scaricava la sua parossistica potenza di fuoco sul sud schiavista, Hateful 8 ruota attorno ai rapporti razziali di un America in questo caso dilaniata di fresco dalla guerra civile. Samuel Jackson che in Django era l’infido «schiavo di casa» stavolta è Marquis Warren, ex-schiavo ed ex ufficiale reduce di un reggimento «negro» dell’esercito unionista, riciclatosi come cacciatore di taglie freelance. Il suo fortuito incontro con il collega concorrente John Ruth detto «il Boia» (Kurt Russell), un ex generale sudista (Bruce Dern), un rinnegato razzista del Missouri (Walton Goggins) e gli altri quattro «odiosi» richiusi in un rifugio di montagna durante una tempesta, sarà l’occasione per una allegoria «grottesca» di violenza e razzismo: delle disfunzioni «fondative» dell’America dei mass shootings. «Il razzismo è un tema su cui in un modo o nell’altro sono tornato in quasi tutti i miei film», sostiene Tarantino che di recente è stato oggetto di un boicottaggio organizzato dalla polizia dopo aver partecipato ad una manifestazione contro gli abusi polizieschi. I western di Tarantino, dirottati su archetipi negativi hanno un senso particolare sullo sfondo di un America post-Ferguson, in cui le istanze del movimento black lives matter contro la discriminazione vengono attualmente ingigantite dalla campagna elettorale. Trattandosi di Tarantino la messa in scena di Hateful 8 è una rappresentazione «dialettica» dell’odio, a partire dall’uso contundente del linguaggio tabù – il «nigger» con cui viene percussivamente apostrofato Warren. La parola (per cui Tarantino anche stavolta è stato a molto criticato) è scioccante come incarnazione di un odio storico. Una parola-vestigia, il retaggio di un passato che come ha dimostrato la polemica sulla bandiera confederata che sventola ancora in South Carolina e molti stati del sud, non è poi così lontano – sicuramente non nelle menti dei discendenti delle vittime. Guarda caso la razza è componente sottesa ma fondamentale anche di Creed il reboot del Rocky così elogiato da Tarantino. Per cominciare il film è diretto da Ryan Coogler uno degli esponenti più talentuosi del new black cinema. Ventinovenne di Oakland, la chocolate city della West Coast, due anni fa Coogler ha firmato Fruitvale Station sul famigerato assassinio di Oscar Grant, un giovane nero, da parte della polizia in una stazione del BART (la metro di San Francisco). Appassionato di Rocky sin da bambino quando il padre lo portava a vedere ogni nuovo film dell’italian stallion, Coogler aveva proposto già un paio di anni fa al suo idolo d’infanzia di girare un nuovo film del ciclo. Stallone in un primo tempo aveva risposto che il perosnaggio aveva dato tutto quello che c’era da dare (forse anche un pò di più, direbbero alcuni fan), ma il giovane regista che da ragazzo è stato giocatore di football semiprofessionista, aveva altre idee «Ho sempre amato di film sul pugilato», spiega. «La boxe è così metaforica, così ricca di stratificazione e così visivamente accattivante».
Il Rocky che Coogler suggeriva a Stallone però era molto diverso, un pugile non suonato ma comunque fragile. Stallone aveva riffato sul suo personaggio invecchiato ancora un paio di anni fa nel meló farsesco Grande Match di Peter Segal con De Niro, ma qui per la prima volta Rocky è anziano sul serio, vulnerabile. Il colpo di genio di Coogler è stato di crearne uno nuovo. Il «vero» Rocky in Creed è il figlio illegittimo del vecchio rivale Apollo: Adonis Creed (un bravissimo Michael B Jordan) chiede di diventare pupillo del vecchio maestro e il testimone eroico così passa di generazione – e dal vecchio proletario italoamericano al ragazzo nero. Un passaggio anche «etnico» quindi, e più che dovuto considerando che nell’ampia filmografia di boxing movies i campioni neri sono praticamente invisibili a fronte di decenni di effettivo dominio agonistico dei pugili di colore. Il ricambio etnico-generazionale di Coogler attualizza il genere in un momento di evoluzione demografica e culturale. Mentre un nuovo movimento politico rivendica la fine della quotidiana, mortale violenza della polizia contro giovani neri, cinema e Tv registrano la presenza di una nuova voce afroamericana. Non sono solo i record di botteghino di Straight Outta Compton a dimostrarlo. In televisione lo fa il successo di un programma come Empire. La serie prodotta da Lee Daniels (regista di Precious e The Butler) che l’anno scorso ha sbaragliato tutti i record di audience. La storia, una soap da prima serata attorno ad una famiglia African American e alla loro casa discografica di hip hop/R&B è diventato fenomeno cult e di costume. La gente ha preso a congregarsi in spontanei viewing parties per guardare le puntate in compagnia, in case, locali e bar. Un successo universale ma anche un fenomeno culturale specifico per come la serie è interpretata da e si rivolge in particolare al pubblico nero. I protagonisti sono magnati discografici ispirati a Barry Gordy o Russell Simmons, la loro Empire records non è la Motown ne la Def Jam ma una invenzione che si rifà ad entrambe e i cui padroni hanno un torbido passato di spaccio da strada nel ghetto. Il patriarca e la matriarca dell’Impero – Luscious e Cookie Lyons – sono interpretati con spavalderia meravigliosamente kitsch da Terrence Howard e Taraji P Henson. Si tratta in parte di una appropriazione del linguaggio televisivo da parte di una «minoranza» dialettale, etnica, razziale e quindi una operazione politica. Empire non chiede scusa a nessuno, non è una rappresentazione patinata di neri «da sitcom» che cercano di non sporcare il salotto buono. Proprio no: come i suoi personaggi la serie va fiera della propria identità e del proprio swagger, del proprio vantarsi. E da questo deriva la sua forza; come il pubblico di una sceneggiata napoletana, la gente si appassiona completamente , partecipa, si identifica ben oltre un normale telenovela: la storia diventa rappresentazione catartica, e congegno geniale per veicolare ogni settimana grande musica (prodotta da Timbaland ) grazie ad una processione di guest star come Snoop Dogg, Patti Labelle, Mary J Blige, Cuba Gooding e Chris Rock. Empire, ha potenziato un segmento demografico che sta emergendo come una potenza televisiva. Per gli studios ormai i contenuti afro americani sono un format ineccepibile delle produzione. Agli ultimi Emmy sono stet premiate Regina King di American Crime (la fiction prodotta da John Ridley, sceneggiatore di 12 Anni Schiavo e regista del bel Jimi: All Is By My Side. Uzo Aduba, di Orange is the New Black e Viola Davis interprete di How to get Away with Murder, l’ultima serie di Shonda Rhimes, creatrice anche di Scandal e una delle creative più potenti di Hollywood.
«È la multietnia, amico» dice sornione Spike Lee. L’autore che da trent’anni incarna lo sguardo afroamericano e la «militanza culturale» nel cinema americano è appena uscito con Chi Raq una versione hip hop di Lisistrata ambientata fra le gang della South Side di Chicago. Nel suo film le donne del ghetto organizzano uno sciopero del sesso fin quando i loro uomini non la smetteranno di ammazzarsi. Questa settimana, dopo la prima di New York, Lee invece del solito party ha condotto il pubblico in corteo fino a Times Square contro il dilagare delle armi da fuoco. «Credo che la gente si stia infine abituando all’idea di una vera diversity della nostra società. Le statistiche dicono che entro il 2043 gli Stati uniti saranno un paese in cui i bianchi saranno in minoranza. Eppure ancora oggi è più facile per un nero diventare presidente del paese che presidente di uno studio o di un network». Dietro di lui, ormai decano del cinema afroamericano contemporaneo, sta però emergendo una nuova generazione di autori.