Diversi anni fa, in un suo libro famoso, La burocrazia celeste (Il Saggiatore, 1971) Étienne Balázs definiva senza mezzi termini «uno sciocco cliché di cattivo gusto» quello relativo alla eterna Cina, ossia la diffusa convinzione che una sostanziale unità e continuità costituiscano le connotazioni salienti delle millenarie vicende del Paese di Mezzo. Ma nonostante tutte le argomentate critiche di cui è stato da tempo fatto oggetto, suffragate da significativi sviluppi delle più recenti ricerche, questo luogo comune è ben lungi dall’esser stato spazzato via: anzi, è più che mai presente nell’opinione diffusa, come si può agevolmente constatare pressoché ogni qual volta la Cina diventa argomento di un pubblico dibattito.
La persistenza tenace di questa vieta immagine è sotto vari profili sorprendente. Non pare averla sostanzialmente intaccata, nella coscienza comune, tutto il filone di critica ai pregiudizi «orientalistici» che, sulla scia di Edward Said, si è sviluppato nell’ambito della sinologia, né sembrano averla revocata in dubbio, nella cultura diffusa, le riflessioni che Jack Goody ha seminato in Il furto della storia (Feltrinelli 2008) sull’arroganza eurocentrica, che è evidentemente implicita in una simile prospettiva. Questa opinione corrente non risulta neppure compromessa dalla quantità di strumenti di alta divulgazione che sono oggi a disposizione di chiunque voglia farsi un’idea adeguata della multiforme e articolata complessità delle vicende cinesi, remote e recenti: per esempio, la Storia del pensiero cinese di Anne Cheng (Einaudi 2000), o l’opera collettanea titolata Cina, diretta da Maurizio Scarpari (Einaudi 2009-2013), frutto di un team internazionale di studiosi e ispirata al modello della Cambridge History of China, vasto e polifonico affresco dell’economia, della società, della politica, della cultura cinesi dalla preistoria ai giorni nostri.
Secondo Anne Cheng, l’idea della Cina perenne si conferma tuttora così seducente, nonostante ogni smentita, perché gratifica il narcisismo occidentale, proiettato in quello che Edward Slingerland definisce un «orientalismo rovesciato», ossia la tendenza a attribuire valore positivo a uno stereotipo che inizialmente aveva una connotazione accentuatamente denigratoria, senza peraltro modificarne la natura essenziale. Se la Cina «immobile uno» appariva a Hegel il torpido e inerte contraltare orientale al dinamico Occidente, oggi quella medesima immagine stereotipata offre a un Occidente stanco – scrive Anne Cheng in La Chine pense-t-elle? (Fayard 2009) un confortevole divano esotico su cui riposare.
Ora, un rinnovato confronto con l’insopprimibile densità delle vicende cinesi, con i conflitti, le tensioni, le drammatiche cesure e le ingenti trasformazioni che fin dalle origini le hanno segnate ci viene proposto dal volume appena pubblicato da Einaudi Cina Una storia millenaria (pp. XXXII-597, euro 35,00) il cui autore, Kai Vogelsang – professore di sinologia a Amburgo dove è nato nel 1969, e collaboratore della prestigiosa rivista «Oriens Extremus» – è stato sin qui prevalentemente dedito ai problemi storiografici nella letteratura cinese antica (Geschichte als Problem, Wiesbaden, Harrassowitz 2007).
Fin dall’inizio il libro sottolinea efficacemente la molteplicità costitutiva della storia cinese nell’arco di tre millenni, attraverso l’evocazione di cinque scene emblematiche, assunte a simboleggiare altrettante fasi irriducibilmente diverse: nella prima si rappresenta una divinazione dell’epoca della dinastia Shang (1200 a.C.), accompagnata da un sacrificio cruento; nella seconda (510 a.C.) si evoca l’umanesimo confuciano con il suo culto per la letteratura e per le antiche norme rituali; nella terza (873 d.C.) si raffigura il fervore entusiastico di una processione buddhista al tempo della dinastia Tang; nella quarta (1852) si evocano gli esami imperiali per il reclutamento dei funzionari sotto la dinastia Qing; nella quinta (1966) c’è una manifestazione di massa della Rivoluzione Culturale in piazza Tian Anmen.
Come l’autore sottolinea, ognuna di queste scene segnala una radicale discontinuità: «Più volte, nel corso della loro storia, i cinesi sono stati estranei a se stessi. Confucio non conosceva più i riti degli Shang, e se vi avesse assistito ne avrebbe avuto orrore. Interi mondi, poi, separavano i cinesi del IX secolo dalla civiltà di Confucio: i saggi del mondo antico erano caduti nell’oblio, e perfino la loro lingua era divenuta incomprensibile. A loro volta, gli eruditi libreschi della tarda età imperiale avrebbero senz’altro condannato la sregolata baraonda della processione buddista: cercavano la salvezza negli “esami confuciani”, esami che però Confucio stesso non sarebbe mai stato in grado di superare. Infine, alcuni intellettuali del XX secolo trascinano al macello tutta quanta la vecchia società, e le Guardie Rosse si mettono in marcia per estirpare definitivamente tutte le antiche consuetudini».
E nondimeno, la Cina stessa ha amato sovente offrire di sé una narrazione monolitica e compatta, sulla quale in particolare oggi enfaticamente insiste la sua classe dirigente, e sulle cui ambivalenze e contraddizioni ha fra l’altro di recente proposto una riflessione a più voci il dossier «Passato e presente nella Cina d’oggi» della rivista Inchiesta (n. 181, dicembre 2013; www.inchiestaonline.it). Ma, come osserva Vogelsang, non sono tanto la grandezza monumentale e la compiutezza a affascinarci nella storia cinese, quanto la sua policromia e i suoi contrasti.
Il volume è dunque interamente strutturato nella prospettiva di cogliere la tensione fra molteplicità e unità che interamente percorre la parabola storica e culturale cinese e che trova soluzione in formule differenti nelle varie epoche: la dominazione per mezzo della violenza nell’età preistorica, l’ordinamento per mezzo delle norme di comportamento a partire dalla dinastia Zhou, il ruolo egemonico rivestito dalla religione buddhista nel Medioevo, la funzione della cultura nel Rinascimento, il connubio di dispotismo statale e mobilità sociale nella tarda età imperiale, l’invenzione della nazione nel XIX secolo, il totalitarismo nell’ambito della società di massa del Novecento, il nazionalismo nel quadro della società mondiale dal 1978 a oggi.
Un aspetto che riceve speciale attenzione è la cangiante e complessa dialettica fra centro e periferie, e utili excursus sono dedicati a singoli temi di lunga durata: dalla scrittura ai testi canonici, dalla stampa al sistema degli esami. Spazi dedicati a sintesi efficacoi riguardano i mutevoli rapporti della Cina con il Giappone e con l’Europa, e la sfaccettata e eterogenea composizione della diaspora, che oggi più che mai intreccia la Cina con il resto del mondo. E per finire, una articolata riflessione è dedicata ai contrasti della multiforme società contemporanea in cui, mentre il contesto urbano diventa sempre più simile a quello dell’Occidente, si accentuano in misura esponenziale le disuguaglianze, si scaricano sui contadini tutti i costi della modernizzazione, aumenta la repressione dei dissidenti e delle minoranze: problemi che non potranno indefinitamente essere esorcizzati ricorrendo ossessivamente alle parole d’ordine dell’«unità» e dell’«armonia».
Fra le tante sollecitazioni critiche che il volume propone, pagine speciali sono quelle dedicate all’archeologia, da sempre indissolubilmente legata all’orgoglio nazionale, e i cui sviluppi degli ultimi decenni, frutto di sensazionali ritrovamenti che presentano discrepanze palesi rispetto alle fonti tramandate, hanno posto le premesse per un’autentica rivoluzione, in grado di seppellire per sempre il dogma della storia nazionale unitaria.