Fine del secolo, fine del millennio, festa di compleanno. Il mondo del nostro tempo – mondo trasformato in mercato, tempo dell’uomo ridotto a mercanzia – celebra i suoi cinquecento anni. Il 12 ottobre del 1492 nacque la realtà che oggi viviamo su scala universale: un ordine naturale nemico della natura, e una società umana che chiama «umanità» il venti per cento dell’umanità.

Nella loro lettera pastorale, i vescovi della chiesa cattolica del Guatemala hanno chiesto perdono ai popolo maya e hanno reso omaggio alla religione indigena «che vedeva nella natura una manifestazione di Dio Ma il Vaticano festeggia i cinquecento anni dell ‘arrivo della fede al continente americano». Ma la fede non esisteva in America prima di Colombo? La conquista impose la sua fede come unica verità possibile, e cosi calunniò il Dio dei cristiani riducendolo al ruolo di Capo Universale di Polizia e attribuendogli l’ordine di invasione delle terre infedeli. In quei tempi profeticamente si cominciò a chiamare libertà di comunicazione il diritto dell’invasore, signore della parola, contro i conquistati senza voce.

Gli indios furono condannati per il fatto di essere «indios» o perché continuavano ad esserlo. I barbari che non si lasciavano civilizzare meritavano la schiavitù. Quanti bruciarono sui roghi per il delitto di credere che ogni terra è sacra? Adorando la natura gli indios pagani praticavano l’idolatria e offendevano Dio. Offendevano Dio o il capitalismo nascente? Da allora è nata l’identificazione della proprietà privata con la libertà: libertà di usare il mondo come fonte di guadagno e oggetto di consumo. Da Carlo V alla dittatura elettronica: cinque secoli dopo, il pianeta è terra bruciata. E cinque secoli dopo l ’Europa non riesce a guarire da un antica malattia chiamata razzismo. Missione di evangelizzazione, dovere di civilizzazione, orrore della diversità, negazione della realtà: il razzismo era ed è un salvacondotto efficace per fuggire dalla storia.

I vincitori sono nati per vincere, i perdenti sono nati per perdere. Se il destino è iscritto nei geni, la ricchezza dei ricchi è innocente di cinque secoli di delitti e saccheggio e la povertà dei poveri non è un prodotto della storia ma una maledizione della biologia. Se i vincitori non hanno di che pentirsi, i perdenti non hanno di che lamentarsi.

Fine del secolo, fine del millennio, tempo dei disprezzo. Pochi possidenti, molti posseduti; pochi giudicano, molti sono giudicati: pochi quelli che consumano, molti sono consumati; pochi gli sviluppati, molti i travolti. E i pochi, sempre meno, i molti sempre più: in ogni paese e nel mondo. Lungo questo secolo. Il divario che separa i paesi poveri dai paesi ricchi si è moltiplicato per cinque.

[do action=”quote” autore=”Eduardo Galeano”]Il mondo dei nostri giorni è il capolavoro di una scuola che potremmo chiamare il realismo capitalista.[/do]

Nella sua infinita generosità il sistema concede a noi tutti la libertà di scegliere tra il capitalismo e il capitalismo, ma all’ottanta per cento dell’umanità è proibito l’ingresso nella società del consumo. La si può guardare in televisione, questo sì: chi non consuma cose, consumi fantasie di consumo. Il mondo assomiglia ora a una qualunque delle metropoli latino-americane: immense periferie assediano le fortezze inespugnabili dei quartieri di lusso. Non restano ormai neppure le macerie del passeggero muro di Berlino; ma è ogni giorno più alto e più massiccio il muro mondiale che da cinque secoli separa coloro che hanno da quelli che vorrebbero avere. Quanti sono caduti, e quanti cadono ogni giorno per volerlo saltare? Nessuno li ha contati, nessuno li racconta.

Fine del secolo, fine del millennio, tempo della paura. Il Nord è in panico al solo pensiero che il Sud possa prendere sul serio le promesse della sua pubblicità, così come l’Est ha creduto all’invito in Paradiso. Un sogno impossibile: se l’ottanta per cento dell’umanità potesse consumare con la voracità del venti per cento, il nostro povero pianeta, già moribondo, morirebbe. Se lo sperpero non fosse un privilegio, non esisterebbe. L’online internazionale che predica la giustizia, si fonda sull’ingiustizia e ne dipende. Non è per caso che l’industria della paura garantisce oggi gli affari più redditizi: il commercio delle armi e il traffico della droga. Le armi, prodotti della paura di morire: e le droghe, prodotti della paura di vivere.

Tempo della paura: grandi buchi nella fascia di ozono, buchi ancora più grandi nell’anima.

Cinque secoli fa nacque questo sistema che ha mondializzato lo scambio ineguale e ha fissato un prezzo al pianeta e al genere umano. Da allora trasforma in fame e denaro tutto ciò che tocca. Per vivere, per sopravvivere ha bisogno della organizzazione diseguale del mondo così come i polmoni hanno bisogno dell ‘aria. Oggigiorno la debolezza dei deboli, persone deboli, paesi deboli, è motivo di scherno o di pena.

La solidarietà è passata di moda. Però, quanto è forte la fortezza dei forti? Il potere, ciglio della violazione, è pieno di violenza, è pieno di paura. Corpo muscoloso spaventato dalla sua stessa ombra, corpo senz’anima, società disanimata. Corpo cieco di sé, smarrito da sé: proprietario di tutto, non è ormai padrone di sé. Non può più permettersi altra passione se non la passione del consumo. Ha sacrificato il diritto alla vita, la sua propria vita sugli altari del diritto di proprietà: e già ha cominciato a consumare se stesso.

Donne e uomini del Sud e del Nord ci siamo riuniti a Padova, questa settimana, per una nuova tappa del Tribunale dei Popoli. Abbiamo discusso il diritto internazionale.

Alla luce dei cinquecento anni dalla conquista dell’America, perchéil diritto internazionale è figlio del diritto di conquista ed è segnato sulla fronte da quello che François Rigaux chiama «il suo peccato originale».

Ci hanno abituato a dimenticare ciò che merita memoria e a ricordare ciò che merita oblio: ma ci siamo riuniti nella certezza che il mondo non è «questo» mondo, né il diritto è «questo» diritto. Ci hanno abituato a ignorare la storia per obbligarci ad accettare iI tempo presente come destino; ma ci siamo riuniti nella certezza che il mondo può e deve essere, la casa di tutti, e nella certezza che che un altro diritto possibile, che non è quello che legittima l’ingiustizia e garantisce l’impunità di coloro che comandano, servendo da alibi a un sistema che mai dice quello che fa né fa quello che dice. Questo è il nostro minuscolo contributo a un compito immenso: la riconquista della pienezza mutuata e della umana dignità della condizione umana. Un nuovo secolo nasce, nasce un nuovo millennio. Tempo di speranza. In viaggio per I ’Italia sono passato per l’Andalusia. E là ho ascoltato il ritornello di un canto flamenco, el canto jondo, il canto profondo che in tre brevissimi versi risponde nel modo più vero alla civiltà che confonde l’essere con l’avere. Il ritornello mi è rimasto dentro, e ancora canta dentro dì me. In questi giorni, durante le sedute del Tribunale, l’ho risentito varie volte, e ogni volta pensavo: a Lelio sarebbe piaciuto.

E ho pensato: a Sergio, a Antonis sarebbe piaciuto.

E adesso, pensando a loro, e sentendo con loro, lo dico a voi:
Ho le mani vuote,
tanto ho dato senza avere,
ma le mani sono mie.