A differenza della sua protagonista, Cio-Cio-San, il cui nome in giapponese significa «signorina farfalla» e rimanda, oltre che alla bellezza e fragilità, alla brevità della sua vita, Madama Butterfly di Giacomo Puccini è un’opera la cui vita(lità) non solo non conosce fine, ma nemmeno alcun accenno di declino. Sebbene, come è noto, sia nata sotto una cattiva stella: la prima al Teatro alla Scala del 17 febbraio del 1904 fu un clamoroso fiasco, il primo e l’ultimo del compositore, che tornò sulla partitura molte volte, fino al 1920, per riscattarla da quel peccato originale, alterandone vistosamente l’assetto.

 

 

Dopo più di un secolo il sovrintendente Alexander Pereira e il direttore musicale (ormai imminente) Riccardo Chailly, fedeli all’idea annunciata lo scorso anno di riproporre opere nate alla Scala e di portare «in palcoscenico le edizioni critiche», ripescano la versione del 1904, ricostruita dal musicologo Julian Smith.

 

 

Si torna dunque alla versione in due atti, con un migliaio di battute in più, ripristinando nel I Atto le parole più sgradevoli di Pinkerton (per maschilismo e cinismo colonialista) e alcuni episodi comici (i cori giapponesi e la canzone dell’ubriaco Yakusidé), nel II Atto l’unità sempre più claustrofobica di tempo e luogo, ma soprattutto l’originario equilibrio dell’opera: ciascun atto inizia con un fugato che porta a un dialogo tra amici della stessa provenienza e dello stesso sesso (nel I Pinkerton e Sharpless, nel II Cio-Cio-San e Suzuki); nel mezzo i protagonisti intonano il loro numero principale (nel I «Dovunque al mondo» di Pinkerton, nel II «Un bel dì vedremo» di Cio-Cio-San); gli Atti si concludono di sera a casa di lei, il I con un duetto amoroso che ricorda quello dell’Otello di Verdi in cui si celebra l’amore come fonte di vita, il II con la messa in scena dell’amore come causa di morte.

 

 

Il II atto del libretto di Luigi Illica e Giuseppe Giacosa è basato su Madame Butterfly: A Tragedy of Japan (1900) di David Belasco, a sua volta adattamento del racconto Madame Butterfly (1898) di John Luther Long, ispirato a una storia vera; il I Atto invece prende spunto dal romanzo semiautobiografico Madame Chrysanthème (1887) di Pierre Loti e mette a fuoco il conflitto culturale tra Oriente e Occidente.

 

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Fatti di cronaca, guerra, colonialismo, turismo sessuale e ignoranza sono lo sfondo inizialmente grottesco e poi tragico su cui si staglia la vicenda della «farfalla» protagonista, priva di consapevolezza e senso della realtà, ma dotata di una fede incrollabile nel suo amore e di un granitico senso dell’onore.

 

 

Cio-Cio-San è una vera eroina tragica: una quindicenne strappata all’«età dei giuochi» che accetta un costume sociale del suo tempo (il matrimonio con uno straniero), ai suoi occhi l’unico possibile riscatto dalla povertà e dalla professione infamante della geisha (questa è la sua hamartia, l’errore che mette in moto l’azione); la sua cieca e orgogliosa perseveranza nel credere di essere la moglie dell’americano nonostante tutti gli avvertimenti ricevuti è la sua hybris, rapidamente demolita dal palesarsi della legge eterna di ogni tragedia: chi ha turbato l’ordine sociale, come Cio-Cio-San ha fatto innamorandosi di un uomo di cui doveva essere solo uno svago, deve ristabilirlo col proprio sacrificio. Esattamente come accadeva mezzo secolo prima alla Violetta di Verdi.

 

 

Il direttore Chailly, che ha debuttato nel 1974 a Chicago proprio con la Butterfly, profonde ogni suo sforzo per rendere merito, con precisione e stupefacente ricchezza coloristica, a una partitura anfibia, allo stesso tempo complessa e facilmente banalizzabile: da un lato il duplice mondo sonoro “reale” del Giappone (ostinati armonici che citano all’occasione canti locali) e degli Stati uniti (il melodismo dell’opera italiana), dall’altro la costruzione leitmotivica del mondo interiore di Cio-Cio-San, fatta di astrazioni e ossessioni; da un lato dunque l’esotismo fin de siècle, dall’altro le modulazioni tematiche wagneriane. Tutto risolto in un’architettura limpida e screziata.

 

 

Il regista Alvis  Hermanis, coautore anche delle suggestive scenografie a strati con Leila Fteita, fa una scelta forte, sebbene non nuova: copre e circonda Cio-Cio-San, interpretata dal soprano Maria José Siri, che si disimpegna egregiamente con voce omogenea e fraseggio variato e intenso, della gestualità del teatro Kabuki, dando corpo agli spettri dell’anima solo adombrati dalla voce del personaggio.

 

 

Eccellente sia vocalmente che scenicamente anche Bryan Hymel nel ruolo impervio dell’infame Pinkerton. Notevoli anche i comprimari e il coro, come sempre magistralmente diretto da Bruno Casoni.