Decine di migliaia di persone per le strade della Cisgiordania hanno gridato ieri la rabbia e frustrazione per l’attacco contro Gaza. Il bilancio finale della repressione israeliana è di un ferito gravissimo a Al Khader e due giovani uccisi: Tamer Faraj Sammur, 22 anni, a Tulkarem e Odai Jabr, 19, a Safa alle porte di Ramallah. Entrambi colpiti al petto da proiettili dell’esercito. Oltre duecento i feriti totali, novanta solo ad Hebron, anche loro centrati da pallottole vere. Non gas lacrimogeni o proiettili di gomma, ma pallottole.

A Betlemme, dopo la preghiera, il ritrovo è a poche centinaia di metri dal checkpoint 300, che chiude da oltre 12 anni il passaggio per Gerusalemme. L’avevano ribattezzata “la marcia dei 10mila”. In strada, sotto il sole di agosto, sono circa 4mila i palestinesi in cammino verso il muro. Tanti non nascondono la rabbia per quella palese divisione, bandiere gialle di Fatah davanti e quelle verdi di Hamas dietro. Come fossero due manifestazioni separate: «L’evento è stata organizzato dai comitati popolari dei villaggi del distretto e dai partiti politici – spiega al manifesto Ahmad, uno degli organizzatori – Avevamo deciso di lasciare a casa ogni bandiera di partito, avrebbe dovuto sventolare solo quella della Palestina. E invece ognuno marcia per conto suo. Guardate, la divisione è chiara». Tra il primo gruppo, i sostenitori di Fatah, e il secondo, di Hamas, si è creato il vuoto. Anche gli slogan cambiano: davanti cantano per Gaza, dietro per le Brigate Al Qassam.

Pochi minuti dopo la partenza, ad un centinaio di metri dal checkpoint, i soldati escono dal varco sul muro a bordo delle jeep. Immediato parte un fitto lancio di lacrimogeni, la gente si ritira. Poi avanza di nuovo, altra pioggia di gas. Fino all’ingresso dei soldati nel campo profughi di Aida. Le donne presenti alla manifestazione non si fanno scoraggiare e cantano i loro slogan contro l’esercito. Tanti i bambini, la mascherina per proteggersi dai gas copre quasi tutto il volto.

Difficile uscire da Betlemme: tutte le strade verso Hebron sono chiuse dalle jeep militari israeliane per manifestazioni e scontri in tutto il percorso: ad Al Khader, Beit Ummar, Halhul, fino ad Hebron, dove in piazza sono scese almeno 15mila persone, in marcia dalla moschea al-Hussein fino alla Città Vecchia, occupata dalle autorità israeliane. Qua le bandiere sono più variegate: a quelle di Hamas e Fatah, si sono contrapposte quelle della Palestina e del Fronte Popolare. Violentissima la reazione israeliana che ha cercato di fermare i sassi e i fuochi d’artificio lanciati dai giovani al checkpoint di Shuhada Street sparando pallottole vere: sarebbero 90 i feriti, tre gravi, secondo Wilid Zaloum, direttore dell’ospedale governativo della città.

Anche il resto della Cisgiordania ha manifestato: i villaggi di Abu Dis, Bi’lin e Nabi Saleh, con le loro tradizionali proteste del venerdì, le città di Tulkarem, Nablus e Ramallah, i campi profughi di Qalandiya e Al Jalazon. Fino a Gerusalemme, dove scontri sono scoppiati nei quartieri palestinesi e due persone sono state arrestate fuori dalla Spianata delle Moschee. Ieri Hamas aveva chiamato tutti a prendere parte al “Giorno della Rabbia” in solidarietà con il popolo della Striscia. Ma non ce ne sarebbe stato bisogno: da settimane ormai ogni notte è accompagnata da manifestazioni e scontri con le forze militari israeliane. Quattordici i morti in Cisgiordania dall’inizio di Margine Protettivo, centinaia i feriti.

Tanti sono tornati in piazza dopo anni di assenza, spinti dalla rabbia per la violenza israeliana ma anche dalla frustrazione per le politiche dell’Autorità Nazionale Palestinese, additata da molti come il braccio dell’occupazione nei Territori. Tanto da spingere Fatah, il partito del presidente Abbas, a tentare uno sganciamento dal governo di Ramallah, per salvare quel poco di consenso che gli resta.