È il 1966: l’ Inghilterra vince il mondiale di calcio per la prima e, ahimè unica volta; i Beatles hanno conquistato gli Stati uniti e il gelo del lungo inverno di austerità del dopoguerra comincia a sciogliersi con l’ottimismo degli anni Sessanta e l’estate dell’ amore. Il 16 novembre un quarto della popolazione inglese è seduta davanti alla tv a vedere una puntata di Wednesday Play sul canale BBC1. In uno stile quasi-documentaristico, tutti vedono, o meglio vivono, la storia di una coppia al verde, Cathy e Reg; quando Reg perde il lavoro, perdono anche la casa e infine i bambini. Il tema della povertà era preso dall’attualità e parlava direttamente ai sentimenti dei telespettatori in modo così convincente che per anni Carol White, l’attrice che interpretava Cathy, veniva avvicinata per strada da perfetti sconosciuti che le offrivano dei soldi. La serie televisiva veniva citata durante i discorsi in Parlamento, e una nuova associazione di beneficenza dedicata ai senzatetto, «Shelter», nata proprio in quella stessa settimana vide un numero di iscrizioni inverosimile.

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Sono trascorsi cinquant’anni da allora. Tuttavia durante la conferenza stampa a Cannes per la presentazione della sua nuova pellicola I, Daniel Blake, il regista di Cathy Come Home Ken Loach si dice scioccato dal fatto che dopo mezzo secolo si raccontino ancora storie simili: «Esiste una crudeltà consapevole nel modo in cui organizziamo le nostre vite oggi, alle persone più vulnerabili viene detto che la loro povertà è colpa loro». Ambientato a Newcastle nel nord dell’Inghilterra, il film parla di Dan (Dave Johns), un operaio di sessant’anni che dopo un infarto si trova intrappolato nel sistema quasi privatizzato del welfare, tecnicamente idoneo al lavoro anche se contro il parere del suo medico. Se fa ricorso contro la decisione del welfare perde il sussidio di disoccupazione, se va a lavorare rischia di perdere la vita. Arriva un’ altra «Cathy», di nuova generazione ma con problemi molto simili; si tratta di Katy (Hayley Squires), una madre single con due bambini, che si è trasferita da Londra nella speranza di poter avere un appartamento. È un film indignato, che offre a volte una comicità amara e a volte una disperazione commovente. Ken Loach vince la seconda Palma D’Oro della sua carriera, un trionfo incredibile per un regista britannico ma il suo governo e ministro della cultura in carica lasciano passare questo grandissimo risultato senza troppi commenti, quasi in un silenzio di tomba. Dopotutto, sono proprio loro gli architetti della crudeltà consapevole che il film denuncia.

Loach gira il suo primo film, Poor Cow, un anno dopo Cathy Come Home ma è nel 1969 con il suo capolavoro Kes che si rivela un regista autorevole. In un piccolo paese del nord dove le miniere hanno iniziato il loro declino, Billy Casper è un bambino isolato, silenzioso, vittima del fratello e dell’ indifferenza della sua famiglia. Scopre una passione inaspettata quando trova un gheppio e comincia ad interessarsi alla falconeria. A volte duro come il paesaggio e le strade intorno, a volte tenero, è un film che racconta di una gioventù in difficoltà che può essere affiancato a I 400 colpi di Truffaut. In quanto regista forse più a sinistra della sua generazione, sotto il governo Thatcher subice la censura dei suoi lavori per la tv e si vede costretto a girare qualche spot per arrivare alla fine del mese. Ma i tardi anni Ottanta e i primi anni Novanta rappresentano il periodo dei suoi film migliori. Dalle piccole storie di strada nelle città del Regno Unito come Riff-Raff – Meglio perderli che trovarli (Londra) e Piovono pietre (Manchester) alla politica fatta su un palcoscenico più internazionale di Terra e libertà (la guerra civile in Spagna) e La Canzone di Carla (Nicaragua). Il suo interesse particolare per l’Irlanda comincia con L’agenda nascosta nel 1990 che vince il premio della giuria a Cannes e poi la prima Palma d’Oro nel 2006 con Il Vento che accarezza l’erba.

La sua critica del sistema sociale della politica inglese e anche dell’occupazione dell’Irlanda fa infuriare la destra. Un titolo del Daily Mail recita: «Perché Ken Loach detesta così tanto il suo paese?».

La verità è che Ken Loach ama il suo paese, come dimostra The Spirit of ’45, documentario del 2013 in cui celebra il primo Dopoguerra e lo spirito di solidarietà su cui si basa il sistema di welfare che in questi giorni sta per essere smantellato da David Cameron e dai suoi amici. L’amore per la sua gente appare ovvio nell’umorismo che smentisce chi dice che la sinistra è priva di ironia, una chiesa troppo severa. È possibile vedere questo amore nella diversità delle voci e accenti regionali, così forti ma allo stesso tempo poco sentiti, tanto che negli Stati uniti e in Australia i suoi film vengono proiettati con i sottotitoli in inglese.

È stato Loach a presentare per primo sui piccoli e grandi schermi i problemi veri, reali come l’aborto, la povertà, la disoccupazione. La parola «shit» fu trasmessa per la prima volta dalla BBC grazie a un suo telefilm. Gli hanno offerto un OBE (Order of the British Empire), una delle onorificenze più importanti per un cittadino britannico ma Loach ha rifiutato, commentando: «È un club a cui non voglio appartenere visti i vigliacchi che ne fanno parte». Ma i premi per i suoi film sono tanti e sicuramente molto più significativi. Quando domenica scorsa ha ricevuto la seconda Palma ’d’Oro, Loach ha parlato del cinema del dissenso, in francese ha detto che «un altro mondo è possibile e necessario». Con la sua lunga carriera Ken Loach ha creato un cinema di dissenso che oggi è più necessario che mai.