Erano altri tempi, era il ’69 ed eravamo tutti antiautoritari. Perciò la mia carriera universitaria cominciò con un atto antiautoritario: un polemico attacco, in nome nientemeno che del Black Power, alla Storia dei negri degli Stati Uniti (Cappelli, 1963) di Claudio Gorlier, un «barone» dell’americanistica. Altri baroni mi avrebbero stroncato e chiuso per sempre le porte dell’accademia; Gorlier, invece, era uno di quelli per cui «barone» vuol dire anche noblesse oblige. Non mi stroncò e mi rispose da vero signore torinese, incoraggiandomi perché mi riconosceva come «un giovane che ha voglia di compromettersi».

RIPENSANDOCI OGGI, quando apprendiamo che Claudio Gorlier è morto all’età di 90 anni, mi accorgo anche che sì, quel libro era certo inadeguato e discutibile in parti, ma Gorlier era stato il primo a provarci, e il suo era stato un vero atto di coraggio.

CHI ALTRO SCRIVEVA di queste cose, nel 1963? Non è un caso se, studioso tradizionale sotto tanti aspetti, Gorlier ha continuato poi a innovare, contribuendo ad aprire il campo alle letterature anglofone di tutto il mondo (il suo Cross-Cultural Voices: Investigations into the Post-Colonial, 1997, è ancora un riferimento; e l’antologia di Racconti dall’India che curò con Paolo Bertinetti uscì nel 1989, prima che gli studi post-coloniali diventassero un’industria accademica).

È stato un critico e uno studioso; forse, soprattutto, è stato un importante operatore culturale, nell’università, nell’editoria, nel giornalismo (l’Unità di allora); le sue traduzioni, introduzioni, antologie non si contano, vanno dai classici del canone alle voci della contemporaneità, da Henry James a Barthelme, da Melville a Roth, da Poe a Sylvia Plath.

MA IL GUSTO per quello che si muove ai margini e fuori del canone sulle frontiere geografiche e culturali resta decisivo. Ha promosso lui stesso la conoscenza di un libro originale e provocatorio come Il ritorno del pellerossa. Mito e letteratura in America (1969) di Leslie Fiedler, un critico influente perché fuori canale. L’America la percorreva dall’Est puritano (L’universo domestico della Nuova Inghilterra) al West della frontiera (l’antologia degli Umoristi della frontiera, 1993, forse il suo volume più originale e importante), facendocela percepire come un insieme plurale di province e diversità, e aiutandoci a esplorare il rapporto fra canone letterario e cultura di massa. E l’anello di congiunzione restava, naturalmente, quel Mark Twain alle cui Avventure di Huckleberry Finn aveva dedicato una delle sue introduzioni più impegnate e che stava al cuore del libro sulla frontiera.

E POI, CLAUDIO GORLIER è stato un insegnante. Non ha chiuso la porta a me, e ha contribuito ad aprirla a tanti ricercatori, studiosi, traduttori delle generazioni venute dopo, da Paolo Bertinetti a Barbara Lanati a Luca Briasco e altri ancora. Ora che non c’è, mi domando quanti sono, nell’università com’è ridotta oggi, ad avere ancora la capacità, gli strumenti e la voglia di fare un lavoro del genere.