L’editoria rende finalmente giustizia a uno dei maggiori poeti del secolo scorso, Clemente Rebora, di cui esce il volume complessivo delle Poesie, prose e traduzioni (Mondadori, «I Meridiani», pp. CXXIII+1.329, euro 80.00) a cura di una perfetta intenditrice della letteratura protonovecentesca, Adele Dei (cui si deve il saggio introduttivo e magna pars degli apparati), in collaborazione con Paolo Maccari che ne firma a sua volta l’accurata bibliografia.

Non che Rebora fosse fino ad oggi ritenuto un qualunque outsider ma di certo, per il senso comune, la sua immagine era fissata in una zona sempre troppo laterale, o se si vuole eccezionale, e tendeva a reintrodursi piuttosto per la grandezza di alcuni singoli lettori: all’inizio c’era stato il suo amico Giovanni Boine, che lo aveva battezzato poeta in Plausi e botte, poi un giovanissimo Gianfranco Contini che lo aveva affiliato all’espressionismo europeo, quindi, nel secondo dopoguerra (quando ormai Rebora da vent’anni, castigato e silenzioso, era divenuto don Clemente Rebora), prima Pasolini che lo aveva proposto in un saggio su «Officina» fra i «maestri in ombra» e poi Pier Vincenzo Mengaldo che, nel 1978, ne aveva fatto un caposaldo dei suoi Poeti italiani del Novecento.

Non mancavano buone edizioni correnti (a partire dalle Poesie, 1961, del benemerito e reboriano onorario Vanni Scheiwiller, un volume riproposto con molte integrazioni nel 1982 e nel 1988 da Garzanti a firma dello stesso Scheiwiller e Gianni Mussini) né mancavano studi accurati, di recente per esempio quelli di Roberto Cicala e Paolo Giovannetti, o documentate biografie (su tutte la primordiale di suor Margherita Marchione, L’immagine tesa, 1960, e l’altra di padre Umberto Muratore, Santità soltanto compie il canto, 1997) latrici peraltro di una messe di inediti, diari e lettere, che già rivelavano di scorcio uno dei più singolari epistolografi del suo tempo.

Tuttavia restavano vaste opacità ed equivoci nella definizione e nella corrispettiva ricezione del poeta a partire dal fatto che Rebora in persona, autore di soli due libri meteoritici, i Frammenti lirici del ’13 e i Canti anonimi del ’22, aveva introdotto un tabù radicale annientando le tracce della sua giovinezza per farsi prete a quasi cinquant’anni: a quell’interdetto, anzi un cilicio letterario brandito con umile orgoglio, egli aveva ottemperato per oltre un decennio (e infatti l’edizione delle redivive Poesie uscite da Vallecchi nel ’47, a cura del fratello Piero, don Clemente l’aveva guardata con tremore e fastidio) fino al momento di sfatare lui il tabù con una messe di preghiere/poesie di valore letterario modestissimo prima di arrendersi al segno straziato e inciso nei Canti dell’infermità (’56) che il giovane amico Scheiwiller gli pubblica in punto di morte.

L’attuale edizione ridisegna il canone reboriano a partire dallo sfoltimento, portato con oculatezza ma con un necessario machete, sulla tarda produzione che ha molto di religioso ma poco, se non in articulo mortis, di letterario. Perché qui si tratta finalmente di ricevere, nella loro dislocazione e impervia complessità, i testi di una grande poesia e non i documenti autobiografici di una originale santità.

Epicentri rimangono dunque le due raccolte eponime e però debitamente disposte a cerniera se, quali intermezzi di preparazione o di compimento, vi si installano sia le Poesie e prose liriche 1913-1920 sia le Poesie postume 1920-1927 («postume» beninteso anche e soprattutto alla scelta dell’abiura poetica e del sacerdozio) unitamente alle traduzioni dal russo mediategli negli anni cruciali dal grande amore della sua vita, la pianista Livia Natus, grazie alla cui consulenza doppiò alcune novelle di Andreev, La felicità domestica di Tolstoj, l’esotico Gianardana e specialmente Il cappotto di Gogol (’22) per il quale aggiunse alcune note presaghe: «L’immagine del cappotto era per lui come una icona per un credente candido: l’occasione della preghiera con cui si libera nell’atto la bontà chiusa, quando la si senta accettata con dolcezza da qualcosa che ne è degno».

Letti in tale retrospettiva il silenzio poetico e l’ascesi autopunitiva di Rebora acquistano evidenza palmare come due facce di una medesima parabola, la quale si innesca in uno stato di acuta alienazione, prosegue nel senso di una drammatica costernazione e si scioglie nel silenzio di una totale autospoliazione: la città (la Milano borghese e positivista, atea, in cui si è formato), le trincee del Podgora dove ha visto e patito su di sé la violenza belluina e la strage, il silenzio monastico dove infine ha cercato un rifugio e l’immagine di un’ultima essenziale verità, sono le tre stazioni che un laico potrebbe associare alla cadenza fatale di una catabasi ma uno spirito religioso riferirebbe, viceversa, al trionfo di una ascesi.

Non va dimenticato che Rebora, educato in famiglia alla religione laica di Mazzini e Romagnosi, dedica i Frammenti lirici «ai primi dieci anni del secolo XX» e perciò, baudelairianamente, alla foresta di simboli della città moderna, la sua Milano, così come va sempre ricordato, ma farlo è persino ovvio, che senza il trauma della Grande Guerra, senza la diretta esperienza dell’inumano e del disumano, non avrebbe avuto alcun senso il titolo dei Canti anonimi, la cui celeberrima appendice datata 1920, cioè la lirica intitolata «Dall’imagine tesa», non si sa se annunci l’avvento della donna amata o il soffio di una presenza puramente mistica. Libro chiuso e centripeto il primo, aperto e centrifugo ai limiti della dissonanza il secondo, essi hanno in comune un senso come esasperato e asfissiato del linguaggio, una perpetua e progressiva torsione dello stile che la tradizione critica ha rinviato alla linea «petrosa» intercorsa fra Dante e Tommaseo o il Leopardi della Ginestra. Ma scrive, al riguardo, Adele Dei: «Per Rebora quella scrittura così ardua e dissestata non dipende da una astratta scelta intellettuale; non è uno sperimentalismo avanguardistico, preordinato e studiato a tavolino, né tantomeno una esibizione, ma l’unico modo rimasto per dire qualcosa, per testimoniare, forse per non impazzire definitivamente».

Forse il lungo silenzio di Rebora, coinciso con gli anni della dittatura fascista e della seconda guerra mondiale, è l’esito di una progressiva persuasione e nello stesso tempo di una stupefatta e cruda constatazione, vale a dire l’impossibilità di dire «io» e senza alibi e senza peccato, il sentirsi muto e accecato prima nella metropoli che disumanizza gli uomini (si pensi a un testo come «O carro vuoto») poi nella trincea che annienta e polverizza l’umano (e qui si pensi a «Viatico» o a «Voce di vedetta morta»). Ciò spiega il fatto che, dopo una crisi intessuta di confuse teosofie e di manie suicidarie, Clemente Rebora una volta ordinato sacerdote abbia voluto imporsi il cilicio del silenzio e poi l’apparente privilegio di tanti versi devozionali, così fragili e candidi da sembrare indegni del suo magistero.

Da tempo malato, vulnerato nella facoltà che era stata più sua, quella della parola, prima di spegnersi a Stresa nella casa dei Rosminiani il 1° novembre del ’57, aveva comunque intravisto nei Canti dell’infermità il solo viatico che potesse ricondurlo all’origine:

«E il corpo mi rifiuta ogni servizio,
e l’anima non trova più suo inizio.
Ogni voler divino è sforzo nero.
Tutto va senza pensiero:
l’abisso invoca l’abisso».